Fruit of the Doom/ Serial



LA PRIMA VOLTA

Chi non ha mai visto nascere una dea
non lo sa che cos'è la felicità
Cesare Cremonini, "La nuova stella di Broadway"
Tra Sean e Bloom era finita da mesi ormai. Lui si ricordò di lei per caso e all'improvviso, scorrendo la rubrica del cellulare. Comparve il suo nome, con il vecchio numero che risultava disattivato. Era sparita da un giorno all'altro: ho bisogno di tempo, di mettere a posto i miei cocci prima di costruire qualcosa con te, gli disse. Lui le lasciò spazio. E lei si volatilizzò. La rivide da lontano in un negozio, un giorno, dopo settimane di silenzio. Un incrocio di sguardi, lei che volta l'angolo di uno scaffale senza fermarsi, per raggiungere un tizio. Quello nuovo, probabilmente.
Il tempo fa rimarginare le ferite: Sean lo aveva imparato presto, accumulando cicatrici nell'anima da accarezzare appena con i polpastrelli. E a ogni carezza sul rilievo del rammendo, a volte ben riuscito, a volte maldestro, non portava alla luce il dolore ma i ricordi. Così Sean pensò alla prima volta. No, non il primo bacio o il primo pompino o la prima scopata selvaggia. Fu la volta in cui lui la legò. E lei si abbandonò al suo volere.
Amici prima che amanti, conoscenti prima che amici, non si erano mai avvicinati insieme a quel mondo, che Sean non poteva fare a meno di frequentare.
Lei era l'ex inarrivabile bella della scuola, che lui ammirava da lontano dietro i suoi occhiali da nerd impacciato. Fu strano, quando vent'anni dopo si rividero e si baciarono e lei non era più così inarrivabile con i suoi fianchi difficili da nascondere e lui non era più così nerd, con le lenti a contatto al posto degli occhiali a televisore.
"Lo aspettavo da così tanto" disse lei, dopo aver assaporato la sua lingua.
"Pensavo non mi degnassi di uno sguardo, a scuola" disse lui.
"Sbagliavi".
Gli incontri clandestini erano i punti esclamativi di un'amicizia, in cui Bloom si appoggiava alla spalla di Sean per piangere su una vita più infelice di quanto avesse sognato alle superiori, con un marito più vecchio che non nutriva il minimo interesse per lei da anni, dopo averla sposata e ingravidata ventenne. Scopava con generosità. Squirtava con altrettanto entusiasmo. E parlava e gemeva, mugolava e urlava a ogni orgasmo. Sean adorava la sua pelle candida e i suoi milioni di lentiggini, i capelli rossi e gli occhi verdi, i capezzoli grandi e rosa, le labbra dentro le quali sparire.
Poi ci fu la prima volta.
Sembrava un giorno qualunque. Scherzavano, allegri come diciottenni. Giocavano a farsi il solletico e lui, per fermarla, le strinse i polsi. Poi li bloccò nella presa salda di una mano soltanto, per poterla tormentare con l'altra. Lui si accorse che lei aveva smesso di lottare e aveva chiuso gli occhi, miagolando un "dai... basta..." poco convinto. Si fermò, senza lasciarle i polsi. E lei aprì gli occhi e le labbra per sussurrare: "Mi piace quando mi tieni ferma".
Sean la guardò, senza parlare, avvicinando il viso al suo. "Quanto ti piace?"
"Tanto..." disse lei.
Lui la spinse sul letto con foga, guardandola mentre i seni e i capelli ondeggiavano per il contraccolpo. E mentre si adagiava sulla schiena per aspettarlo, per mettersi nelle sue mani.
Ma Sean non la raggiunse. Non subito: "C'è una cosa che non sai di me".
Pausa. Gli occhi di Bloom un po' smarriti.
"Se è questo che ti piace, potrei prenderti per mano e guidarti in un mondo che non conosci. Un mondo dove stare ferma, legata, in attesa di quello che ho in mente per te è pane quotidiano. Un mondo dove l'ansia e la paura si mischiano al desiderio, e dove il dolore si salda al piacere".
Lei continuava a guardarlo. Era il bivio e Sean lo sapeva: se ne sarebbe andata, prendendolo per matto. O lo avrebbe seguito, afferrando la sua mano tesa.
"Portami con te" disse lei, dopo un silenzio che sembrò lunghissimo.
"Spogliati" disse lui, appoggiandosi al muro senza smettere di guardarla.
Poi fu nuda. E fu in ginocchio sul pavimento mai abbastanza caldo, i polsi legati dietro la schiena da un foulard di seta, con gli occhi iniettati di voglia appena Sean le afferrò i capelli rossi per volgere il suo sguardo in su. E poi indirizzare la bocca sulla sua erezione, ancora protetta dai pantaloni.
Poi fu gioco, con le parole che la chiamavano "docile succhiacazzi" o peggio, con il cazzo umido della sua saliva che le impiastricciava le guance truccate con cura, con il segno del rossetto da portare sempre più vicino alla base del membro, mentre lui lo spingeva dentro di lei e lei, gemendo d'ansia e voglia, lo marchiava con le labbra per superare il suo limite.
Poi furono mani a stringere il collo e a schiaffeggiare le guance bagnate. Furono parole di lui che la incalzavano e di lei che si abbandonava. Fu la mano che esplorò tra le sue cosce per trovarla bagnata e pronta, felice di essere usata.
Fu la prima volta di Bloom nel mondo della sottomissione. Ne seguirono altre. Ma nulla, decise Sean con la nostalgia e il sorriso, è stato intenso come farle valicare per la prima volta la soglia di un mondo nuovo. Come se avesse perso di nuovo la verginità. Ma con più consapevolezza. E nessun tizio seminascosto da uno scaffale del supermercato avrebbe mai potuto avere questo.
Bloom, pensò Sean, era sbocciata grazie a lui. E almeno per quel piccolo ma per nulla insignificante dettaglio, sarebbe rimasta sempre sua.








PROFUMO DI VANIGLIA

Sean sceglie la birra ospite, senza nemmeno chiedere qual è. Era una moda del suo locale preferito, ogni settimana e solo per quella settimana veniva servita una birra artigianale speciale. Quella che atterra sul bancone davanti al suo viso on ha ancora un nome, e se li barman l’ha detto lui non l’ha capito. Però è bionda e torbida, ha un profumo intenso di luppolo e sembra piuttosto forte.
Sean beve il primo sorso e la schiuma gli si appiccica ai baffi. Qualcosa di fresco - pensa - gli schiarirà le idee. Avrebbe dovuto essere già a casa, dopo quel sabato pomeriggio di lavoro che non è riuscito a evitare. Ma non ha voglia di tornare, non subito. Così ha tenuto il telefono spento in modalità riunione e ha deciso che gli serviva una birra per pensare.
Pensare a lei, innanzitutto. Era la sua ultima storia clandestina finita male. O meglio finita e basta. E gli sanguinava ancora l’anima. Cambiano in fretta le cose, dalla voce supplicante di una docile bimba legata che implora “ti prego, scopami...” alla voce del lungo messaggio vocale che sentenzia che “non posso più andare avanti così, non riesco a gestire le mie due vite”. Che anche lei, come lui, aveva il cuore altrove, allacciato in un rapporto al gusto di vaniglia.
Si consumano in fretta le cose, come la candela di cera naturale che teneva nel suo zaino dei giocattoli e che tirava fuori a ogni incontro, dopo averla bendata. Adorava i suoi gemiti strozzati, a ogni goccia che colpiva la pelle. Non potevano fare a meno l’uno dell’altra. Fino a che non è diventato un problema. O forse no. Forse era una scusa perché lei aveva trovato di meglio. Lo diceva Bukowski, che un cane non molla il suo osso a meno che non ne abbia trovato uno più succulento.
Spolpato. Sean si sente spolpato. E la birra non schiarisce le idee. Un’occhiata all’orologio, la mano che d’istinto cerca il telefono in tasca per riaccenderlo ma poi no, non ancora. Sua moglie ormai avrebbe dovuto essere tornata dal breve viaggio fino a casa degli amici, dove i figli avrebbero trascorso la notte per un pigiama party di compleanno. A casa da soli, probabilmente sarebbe stato più facile fare sesso, come accadeva bimbi permettendo una volta la settimana, con cadenze regolari come le fasi della luna. Un sorso di birra e una domanda: perché tornare a casa ogni sera? E perché stasera non ne ha voglia? Cenetta, un film insieme come da fidanzati, sesso tra due corpi che si conoscono da anni e forse sanno ancora come darsi piacere. Che cosa c’è di male?
Nulla, ammette Sean. Centinaia di persone venderebbero un rene per avere una vita come la sua, una casa in cui tornare, una moglie, i figli. Affetti. Sicurezza. Ecco il punto: se Sean fosse una nave, farebbe viaggi brevi, lungo la costa, ma mai troppo lontano dal suo porto. Niente vele spiegate, niente mare aperto, niente profumo di ignoto e libertà. Ma la sicurezza attutisce i desideri e i sentimenti, che diventano scontati come un respiro o un battito del cuore che tanto si susseguono senza bisogno di dirglielo.
Invece ogni volta che Sean (sorso di birra più profondo) inizia una nuova storia che non abbia il familiare sapore di vaniglia, sente accelerare il cuore, stringersi lo stomaco, allargarsi l’anima. Quando sale in auto con lo zainetto dei giocattoli, la sua mente non pensa che alle fantasie da rendere reali con le corde, i nastri, le manette, le mollette che pizzicano. E galleggia sull’energia dell’infatuazione. L’attesa gli regala un entusiasmo che il suo cuore addormentato non pensava di essere ancora in grado di provare.
Ma un sorso di birra un po’ meno freddo gli ricorda che la medaglia ha il suo rovescio. Tanto è intensa l’infatuazione, tanto è doloroso il distacco. È il dolore che prova ora, pensando a lei che ha smesso di rispondere ai messaggi, tagliandolo fuori dalla sua vita per sempre. Come se gli incontri, i momenti in cui non esisteva nient’altro se non loro, lei che si affidava a lui e lui che la plasmava sotto le sue dita, regalandole la realtà che aveva sempre immaginato, fossero stati soffiati via come cenere di un fuoco ormai spento. Ma la cui brace bruciava dentro di lui.
Ne valeva la pena? Soffrire inesorabilmente e pietosamente, essendo costretto a nasconderlo nella vita di tutti i giorni, solo per quei momenti di entusiasmo che gli facevano scoppiare il cuore? O tanto valeva rintanarsi per sempre nella sua tana al profumo di vaniglia, senza rischi, senza sussulti, senza tradimenti? Ma anche senza le scosse che lo facevano sentire vivo?
Sean guarda l’orologio. Ora di andare. E poi fissa l’ultimo sorso di birra. Lo beve, sperando che la risposta sia in fondo al bicchiere. Ma probabilmente, pensa, è solo un’illusione.




AMBROGIO

“Ha chiamato, signore?”
“Puntuale come sempre, Ambrogio. Buonasera”
“Buonasera a lei signore... E buonasera signora”
“Ora dimmi, Ambrogio, che cosa vedi?”
“La sua proverbiale eleganza, signore, anche se per una volta si è concesso la libertà di rinunciare alla cravatta”
“Non ci ho rinunciato. Semplicemente l’ho destinata a un altro uso”
“Ho notato, signore. Ma la discrezione mi ha impedito di sottolinearlo”
“Conosco e apprezzo il tuo impeccabile modo di fare, Ambrogio. E anche il fatto che tu abbia rimarcato la mia eleganza e non la vera novità di questa sera nella mia stanza da letto”
“Signore, ammetto che la scena è piuttosto inusuale”
“Non hai mai visto un uomo tenere al guinzaglio una schiavetta? Forse perché il guinzaglio è una delle mie regimental di Zegna preferite?”
“Signore, è inusuale che scene come queste si svolgano in presenza del maggiordomo”
“È il solo dettaglio inusuale ai tuoi occhi?”
“Temo di no, signore”
“Avvicinati pure, Ambrogio. Puoi toccarla”
“Non mi permetterei mai, signore”
“Non era una proposta, Ambrogio. Era un ordine. E poi a lei non importa, anzi le piace. Non è vero troietta?”
“Signore, temo non possa esprimere una risposta articolata con quella strana pallina saldata alla bocca”
“Oh ma lei si fa capire anche quando mugola e geme, o per il piacere o per il dolore COME... QUANDO... LA SCULACCIO... NON È VERO, TROIETTA?”
“Signore, ha fatto sì con la testa. Non è necessario accanirsi oltre”
“Ambrogio, non spetta a lei decidere quando smettere. E nemmeno a te”
“Il mio era solo un suggerimento, signore. Tutto il mondo apprezza la sua temperanza”
“Solo se esplori gli eccessi fino a conoscerli meglio di te stesso poi puoi permetterti di chiuderli fuori dalla tua vita lineare e controllata senza cadere nella tentazione di mischiarli ad essa. Anche la qui presente troietta ha bisogno di abbandonarsi per poi essere rigorosa e inflessibile quando discute di finanziamenti e fidi con il mio direttore commerciale. È per questo che quando rappresenti la banca di fiducia delle nostre aziende non vuoi mai trattare con me, troietta?”
“Signore...”
“Che c’è Ambrogio?”
“Solo la considerazione che per me è inusuale vederla così...”
“Invece è solo un altro lato di me stesso. Piuttosto Ambrogio, quali sono gli eccessi che esplori per consentirti di mantenere il senso della misura?”
“Onestamente non mi sento portato per gli eccessi. Talvolta la sera mi concedo di allungare la tisana alle erbe con un goccio di whisky scozzese. Ma dubito che questo possa rientrare nei suoi parametri di ciò che trascende il limite”
“Il tuo senso dell’umorismo svela la tua formazione britannica ancora prima del tuo accento più londinese che milanese, Ambrogio”
“Immagino sia un complimento, signore. In tal caso grazie”
“Prego. E comunque no, quello non è un eccesso. Per esempio hai mai portato una ragazza al guinzaglio?”
“No signore”
“Vorresti provare?”
“Onestamente, signore, pensavo di essere entrato in questa stanza per servirle uno dei suoi drink serali. Questa prospettiva era quanto di più lontano dalla mia mente vecchia ma ingenua”
“Esperta, Ambrogio. Non si dice vecchia. E comunque non mi hai risposto”
“Cambierebbe qualcosa la mia risposta o la sua è una semplice domanda retorica?”
“Perspicace come di consueto. Su, prendi la cravatta e guida la signorina porcellina attorno alla stanza”
“Ha una preferenza sul luogo verso cui condurla, signore?”
“L’essenziale è che io possa vederla bene mentre ondeggia i fianchi, la mia parte preferita di lei. Non ha un culo delizioso?”
“Lei sta mettendo a dura prova il mio savoir faire, signore”
“Lo so. È divertente. Ma non ho potuto non notare dove si indirizzano i tuoi sguardi furtivi. Ti piace la codina bianca?”
“Trovo... ingegnoso il metodo usato per collocarla in quella posizione, signore”
“Ingegnoso... il tuo uso politicamente corretto delle parole non smetterà di affascinarmi. Fermati ora, lascia che la troietta strofini il viso sulle tue gambe e sui tuoi piedi come le gattine che vogliono qualcosa in cambio”
“Le è consentito comportarsi così con me?”
“Sono io a fissare che cosa può o non può fare, Ambrogio. Se io dico a te di fermarti, lei sa che cosa accadrà dopo. Così come se io cedessi a te la mia poltrona”
“Non si scomodi, signore. Cercherò una sedia”
“No Ambrogio, ti prego. Accompagnala qui e siediti”
“Come desidera, signore. È un onore poter godere della sua poltrona preferita”
“Non sarà l’unica cosa di cui godrai. È da molto che non ti viene praticato sesso orale?”
“Signore, benché io sia persona di larghe vedute, sarei più a mio agio se potessi tenere alcuni aspetti della mia vita riservati”
“Lo considero come un no. E in ogni caso posso supporre che non ti sia mai accaduto in una simile situazione. Desideri qualcosa da bere, Ambrogio?”
“Sarebbe altrettanto inusuale vederla mentre mi versa un goccio di whisky liscio, scozzese, invecchiato almeno dodici anni”
“E questo lo considero come un sì. Ma prima lascia che slacci il bavaglio speciale alla mia piccola schiava succhiacazzi. Lei saprà che cosa fare”
“Lei sta mettendo a dura prova anche le mie larghe vedute, signore”
“Suvvia, rilassati per una volta. Un pompino non ti farà perdere la tua serietà. E la qui presente maialina è così golosa di sperma. Coraggio piccolina, sai quello che devi fare”
“Signore, non c’è verso di farla desistere dal suo progetto, immagino”
“Ambrogio, goditi il tuo whisky e la mia poltrona. E lascia che lei ti sbottoni quegli impeccabili pantaloni neri che probabilmente hai stirato meno di due ore fa”
“Grazie signore. Il suo... whisky è... da veri intenditori”
“Apprezzo il tuo buon gusto Ambrogio. E quel che resta del tuo autocontrollo. Dev’essere piacevole il tocco caldo delle sue dita sul tuo cazzo”
“Signore, ogni parola in questo... momento potrebbe... sembrare superflua e quasi off... oh... offensiva”
“Tranquillo Ambrogio. Non dovrai parlare molto. Lo farò io per te se necessario. Sai che cos’è questo per esempio?”
“Si direbbe il suo... ahhh... frustino da equitazione in pregiato... nerbo di bufalo”
“A te non sfugge nulla. Beh, oggi non serve per una cavalla purosangue ma per una porcellina. Sai, lei è così brava che non smetterà di succhiarti il cazzo nemmeno mentre le frusto il culetto... prima di QUA... e poi di LÀ...”
“Ah...”
“Ti ha fatto male, Ambrogio”
“No signore, direi l’esatto contrario...”
“È o non è una brava succhiacazzi? Concentrati sulle palle del mio amico, ora”
“Signore, lei sta ridefinendo anche... il mio senso-ooohhh... senso del pudore”
“È divertente Ambrogio. Ora ti mostro una cosa che potrebbe essere divertente anche per te. Se scosto la codina e le infilo un dito nella figa, troverò questa troietta così bagnata che il mio dito uscirà sgocciolando”
“Immagino, signore”
“Come previsto, Ambrogio. Guarda...”
“Sembra che... luccichi da quanto... è bagnato”
“Non sei fiero, Ambrogio, di essere il protagonista di tanta eccitazione?”
“Signore, non credo... di avere un grande... merito...”
“È incredibile come tu mantenga l’autocontrollo anche quando questa troietta col culo ormai ROSSO... per le FRUSTATE... che sta prendendo senza un CAZZO... di GEMITO... sta ingoiando il tuo cazzo fino alle palle. Giù con quella testa, schiava. Fino in fondo. Devo spingerti io, eh? Devo farlo?”
“Signore, forse... fatica a... aaah... respirare...”
“È una succhiacazzi più esperta di quanto tu creda, Ambrogio. Vuoi spingere tu stesso la sua testa?”
“Signore... questo ridefinirebbe... il mio concetto... di autocontrollo...”
“Levo le mani e te la cedo. Ridefinisci, Ambrogio, ridefinisci tutti i tuoi concetti, i tuoi limiti, apri i recinti delle tue fantasie, libera la tua maleducazione. Esci dalla tua armatura, cazzo...”
“Mmmh... signore, non so... se devo... ringraziarla o... maledirla...”
“Domanda inopportuna, Ambrogio. Dovresti concentrarti sulla mia schiava ora. Dai, aiutami a eccitarla. Lei apprezza se la chiami troietta succhiacazzi. Chissà come reagirebbe se lo sentisse dalla tua voce con quell’impeccabile accento inglese. Coraggio, Ambrogio, già le stai spingendo giù la testa, come chi ama un altro genere di controllo, non quello su se stesso. Coraggio, dille quello che si merita...”
“Troietta... succhia... cazzi...”
“Ancora, Ambrogio, ancora. Chiedile se vuole il tuo seme giù in fondo alla gola. Chiedile se lo berrà tutto...”
“Lo... berrai tutto, vero? Non... ne lascerai... cadere una goccia... sui miei pantaloni... puliti?”
“Dio, i pantaloni. Sei incorreggibile, Ambrogio. Ma stai migliorando. Puoi fare di più”
“Lo vuoi tutto giù in... gola, vero? Ti piace... succhiare i peni... i cazzi... i cazzi degli sconosciuti? Rispondi, troietta...”
“Senti come mugola, Ambrogio... dovresti insistere...”
“Mugoli come una porcellina succhiacazzi, eh? Ti piace farti scopare la bocca? TI PIACE? E CHE TI PRENDA A SCHIAFFI MENTRE... LO SUCCHI TI PIACE? EH, TROIETTA?”
“Bene Ambrogio, bene... forse è stata una scelta opportuna quella di non lasciarti il frustino”
“SUCCHIALO TUTTO ORA... SUCCHIALO FINO... IN FONDO... COSÌ TROIA, COSÌ... SENTILO DENTRO, SENTILO, SENTILO... SENTILOOOOOOHHHH”
“E bravo Ambrogio. Ora anche io conosco il tuo lato oscuro. E la mia piccolina è stata proprio brava. Visto? Neanche una goccia sui tuoi pantaloni. Su, tesoro, ora puliscilo per bene e poi risistema il mio impeccabile amico, come se nulla fosse successo”
“Signore, posso confidare... sul fatto...”
“Che nessuno saprà mai quello che è successo stasera? Ho imparato da te la nobile arte della discrezione. Puoi starne certo. Ma ora, ti prego, lasciaci soli. Ho proprio voglia di coccolare la mia piccola e docile schiava. Sei stata brava tesoro, mi rendi fiero ogni giorno di più...”
“Con il suo permesso, signore, mi ritirerei”
“Ambrogio...”
“Sì, signore?”
“Il tuo whisky”
“Grazie, signore”







LA REGINA OMEGLE

Oggi sono Anna.
35 anni, separata, niente figli.
Capelli rossi, occhi verdi, pelle chiara come se fosse trasparente, decine di migliaia di lentiggini.
Seno grande, tanto prima o poi lo vorranno sapere. Terza abbondante.
I capezzoli grandi. Di un bel rosa acceso.
Fianchi non perfetti. «Ma adoro i perizoma, e tutti dicono che mi donano».
E un hobby, la danza del ventre. Ma quando lo sapranno, ormai saranno nelle mie mani.
Oggi sono Anna, la regina di Omegle.
Entro, aspetto.
Normalmente il primo messaggio è una lettera.
M. Cioè maschio.
Asciutta, chiedo: anni?
Se la risposta è dai 18 in su, allora continuo.
Altrimenti cambio. E aspetto un'altra M.
Ma se rispondo, chiedono subito: sei F?
Dico di sì.
Poi sono loro a voler sapere i miei anni.
Quando dico 35, sbavano già.
Oggi sono Anna, la milf di Omegle.
O almeno così sperano.
Dicono: «Mi piacciono quelle più grandi».
Lo dicono sempre. Quasi sempre. Prevedibili.
Poi mi chiedono che cosa ci faccio in chat.
«Voglio flirtare, giocare, divertirmi» rispondo.
E capisco, subito, che sono miei.
Basta poco, davvero.
Oggi sono Anna, la regina di Omegle che chiama a raccolta i suoi sudditi.
I suoi sudditi con il cazzo dritto.
Mi piace? Sì, mi piace.
È una curiosa sensazione di potere.
Io decido se eccitarli.
E loro si eccitano.
Io conosco le parole giuste per accendere ancora di più la fiamma.
(Per esempio, quando scoprono che sono sul letto in accappatoio e basta. E che sono in chat perché aspetto che si scaldi l'acqua della doccia).
E la fiamma si accende.
Quando pensano di poter essere audaci, io sono più audace di loro.
Gli racconto che sono tutta depilata. Tutta.
Gli spiego quanto mi bagno quando mi eccito.
«Sai cos'è lo squirting?»
Gli parlo dei miei giocattoli: due dildo, due vibratori, le sferette.
E se mi chiedono se concedo il mio culetto, gli parlo dell'anal plug.
«Sai cos'è? Serve per allenarlo, se il tuo cazzone è tanto grande...».
Tanto lo so che è grande adesso. E proprio adesso so che cosa ne stanno facendo.
Sono Anna, e la fantasia mi permette di vedere oltre lo schermo di Omegle.
«Hai kik?»
«No»
«Hai skype?»
«No»
«Hai facebook?»
«No. L'avvocato mi ha detto di cancellare il profilo dopo la separazione»
«Hai una foto?»
«No». Anna, la regina di Omegle, è fatta solo di parole.
Solo poche volte, e solo se la regina pensa che sia necessario, c'è il link a una foto di una modella canadese.
Una pubblicità di occhiali da sole, credo, che sembra una vecchia Polaroid.
Lei, la modella, ha i capelli rossi, la bocca aperta e fa la linguaccia.
Un gesto che, nel contesto, cambia significato.
«Te l'ho mandata perché ho pensato che ti potesse ispirare...»
È come se lo vedessi, il sussulto del suo cazzo stretto nella mano, mentre immagina di poter spruzzare le gocce del suo orgasmo su quella lingua.
Mentre Anna dice «dai, dammi da bere tesoro... ho tanta sete...».
Penso che non lo abbia mai sentito dire davvero, da una ragazza che gli faceva un pompino.
E io non l'ho mai detto davvero.
Ma io oggi sono Anna, la regina di Omegle.
E qui posso dire qualsiasi cosa. E farmi dire qualsiasi cosa.
«Lo sai che mi eccita se mi dici le cosacce».
(Ci son quelli che hanno paura. E mi chiedono: «Posso chiamarti porcellina?»)
«Vuoi che me lo infili adesso, il vibratore?»
«Sai qual è il mio desiderio proibito? Entrare nello spogliatoio di una squadra sportiva, nel momento della doccia dopo l'allenamento. Ed essere l'unica ragazza in mezzo a tanti maschi... Tu fai sport?»
Sono Anna, sono sexy, sono il loro oggetto del desiderio.
Lo specchio è lì a due passi, in questa stanza.
Ma non lo guardo. Non mi guardo.
Non voglio sapere la verità.
Né quanto è distante dalla fantasia.
Non voglio che lo specchio mi ricordi chi sono. E come sono. E perché non potrò mai essere come sono su Omegle.
Perché oggi sono Anna, fatta di parole e di fantasia.
Figa.
Scopabile.
Scopata, virtualmente.
Un chiodo fisso nei loro prossimi sogni.
La ragazza che si fa fare di tutto e le piace.
Con la patata depilata che spruzza di piacere.
Con il culetto allenato che dice sempre sì.
Penso che sono così tanti.
E io sola.
O forse no. Solo che le altre sono al cinema a vedere le 50 sfumature.
Mentre Anna è la regina di Omegle.
L'unica, la sola.
Anche se poi siamo tutti uguali. E tutte uguali.
Scopiamo in chat.
Esploriamo perversioni.
Arriviamo a immaginare uno che ci lega e ci maltratta, però ci desidera sopra ogni altro desiderio, come in quel film.
E fare la coda per vedere quel film sembra un passo verso l'emancipazione.
Come se bastasse una pellicola patinata a rendere una persona disinibita.
O meglio, in grado di provare un'emozione fino in fondo.
Che cosa ci frena dal farlo davvero?
Che cosa ci trattiene dal provare piacere nel darlo?
E da dare piacere per provarlo?
Così, gratis, solo perché ci va?
Come succede su Omegle, con perfetti sconosciuti.
Che dicono di essere Anna, di 35 anni, capelli rossi e separata.
O dicono di avere 18 anni e magari ne hanno 50.
O magari 16. Ma un sacco di megabytes di connessione sfruttati per guardare YouPorn.
Io non posso sapere se ne hanno sedici o cinquanta.
E nemmeno se hanno il fisico atletico e il cazzo grosso che dura finché non decidono di venire.
E dopo la prima volta sono subito pronti per la seconda.
(«Sai cosa mi piace? Tenerlo in bocca dopo che sei venuto. E giocare con lui finché non diventa di nuovo duro»)
Loro non sanno come sono davvero.
Quindi siamo pari.
Nel senso che per tutti noi la realtà lì fuori è diversa.
Più repressa, più limitata, più angusta.
E qui dentro siamo solo parole e fantasia.
Solo?
Io sono Anna. E su Omegle, delle parole e della fantasia, sono la regina.





AMIKINTOMASIA
Sean aveva schierato i ricordi sulla scrivania, dopo averla svuotata di fascicoli, cartacce, fogli di appunti.
Al centro c'era il frustino rosa, con la punta a forma di stella. Lo aveva preso da Decathlon, doveva essere un attrezzo per bambine che iniziano a praticare equitazione. Ma la mente di un Daddy iperprotettivo e innamorato lo aveva catalogato subito come il regalo perfetto per la sua baby.
“Ti regalerò qualcosa che terrai in bocca” le aveva scritto “e che poi porgerai a me” immaginandosi la scena dieci, cento, mille volte. E sentendo ancora, a distanza di settimane, l'eccitazione solleticargli l'anima, anche se quella scena era lontana anni luce dalla sua realtà, ormai.
Di lato il biglietto del treno, mai timbrato, mai usato. In alto a destra ben stampata la data del giorno del mancato incontro.
Sull'altro lato il plug di silicone rosso fuoco. Non lo aveva gettato via, anche se sapeva che non lo avrebbe mai regalato a un'altra. Forse – aveva paura a confessarlo – lo teneva sperando che quell'incontro un giorno ci sarebbe stato.
Sopra, in bilico sulla lampada da tavolo, la foto di lei che preferiva e che finiva per guardare ancora troppo spesso, proiettata davanti ai suoi occhi dallo schermo dello smartphone: era allo specchio, voltata di spalle e chinata in avanti, il perizoma abbassato a metà delle cosce, il culo perfetto che occhieggiava invitante, l'ombra della sua vagina appena più giù. E quello sguardo furbo e quelle labbra carnose che non aveva mai baciato...
Era tutto pronto. La data, l'hotel, gli orari, il luogo dell'appuntamento clandestino.
Erano pronti.
Settimane di chat, di videochat, di telefonate, di sfide incrociate. Lei che faceva la preziosa, poi la gattina, poi la ribelle. Lui che la proteggeva, la coccolava, la educava, a volte la puniva. Gli bastava chiudere gli occhi per ricordare quella spazzola con il fondo piatto.
“Papy, così?” chiedeva lei mentre il manico affusolato spariva nella sua figa.
Oppure quando la convinse a provare a penetrarsi il culo.
“Fa male papino”.
“Ti porterò un regalo perché tu possa abituarti e poi fare tanto contento il tuo papy”.
“Oh sì, mi piacciono i regali”.
“E anche farmi contento”.
“Voglio che tu sia felice papino”.
Felice... Sean scosse la testa e prese il bicchierino pieno di grappa che si era versato prima di schierare i ricordi davanti alla sua faccia, perché lo prendessero a schiaffi. Una golata profonda fece digerire il pensiero di quello che non fu mai. E fece salire la rabbia per quel giorno. La lite. Lei che si tira indietro: “Non posso, non posso...” in lacrime, pensando al suo ragazzo, al fatto che non voleva tradirlo, alla paura improvvisa dell'ignoto.
E lui che prima cerca di capirla, poi di demolire i suoi dubbi da ventenne inesperta e spaventata della sua stessa indole. E infine, di fronte a un muro di gomma di lacrime e ansia, la rabbia.
Non era da lui. Lui così misurato, lui che diceva che non si scherza con il mondo della dominazione e della sottomissione e chiunque non fosse stato in grado di controllarsi avrebbe fatto bene a restarne ben lontano, era esploso come un vulcano della Polinesia. Le aveva detto cose irripetibili, di fiducia tradita e cuore spezzato, del fatto che non era né una vera baby né una persona degna di attenzione. Aveva trasformato le sue lacrime in una cascata. E si era sentito una merda. Tanto da cercare di rompere il muro del silenzio che lei aveva alzato. Una, due, mille volte. Fino al giorno, tanto tempo dopo, in cui lei aveva risposto. E avevano fatto pace. Ed erano tornati almeno amici.
E mentre lui era rimasto solo da allora, ancorato a un ricordo che non si cancellava, rinunciando a qualsiasi occasione, lei gli chiedeva consigli e gli raccontava notti passate con il suo ragazzo, che stava provando a trasformare in un Daddy. E lui era la persona di cui lei si fidava, per aiutarla a completare la metamorfosi. E lo copriva di grazie, di sorrisi, di promesse di amicizia eterna, di “se mai avrai bisogno io sono qui”.
Tu sei lì, pensava lui. E io sono qui. Lontani. Separati. Strade parallele. Che si guardano e non si toccano. Com'è possibile, pensava lui, che una persona mai vista entri sotto pelle come un tatuaggio? E che l'inchiostro di quel tatuaggio non smetta mai di bruciare?

Violet aveva di nuovo cambiato l'immagine di sfondo del suo computer. Quello del lavoro, peraltro. Era assurdo, avrebbero fatto domande prima o poi. Ma non era affatto un gesto razionale. Era rimpianto e nostalgia, e il dolore dell'abbandono.
Quella foto di Sean in primo piano. I suoi occhi grandi, la sua barba incolta, il suo sorriso rassicurante eppure stranamente perverso erano di nuovo davanti a lei.
Si erano incontrati in chat, in un gruppo a tema. Lei schiava senza collare, lui Daddy senza piccolina da curare. E con un dolore grande così da sanare. Violet era stata sempre un po' crocerossina, oltre che sottomessa per indole. Fin dai primi scambi di battute, il tempo di percepire la sua dolorosa malinconia, lei aveva deciso che lo avrebbe salvato. E se fosse stata brava, avrebbe riempito quel vuoto.
Lo fece con le parole: lasciò sfogare lui, poi raccontò di se stessa. Un giorno dopo l'altro, i loro appuntamenti in chat erano diventati una piacevole abitudine. Poi qualcosa di irrinunciabile. Infine, quando l'intimità divenne quasi compenetrazione, lei sentì solo un desiderio, quello di inginocchiarsi al suo cospetto e di offrirsi interamente a lui. “Prendimi” pensava, “sceglimi. Sarò tutto quello che le altre non sono mai state, che lei non è mai stata. Nulla sarà mai troppo per me, se serve a renderti felice. Nulla sarà troppo doloroso o troppo difficile, se serve a dimostrarti che io sono tua, che mi affido a te, che mi abbandono con fiducia e devozione al tuo volere e ai tuoi bisogni”.
Lo pensava e non glielo diceva. Non in quei termini.
Preferiva curare le sue ferite con dolcezza, parole come garze fresche che aiutavano le ustioni e gli strappi dell'anima a rimarginarsi. Qualche piccola provocazione con lui che stava al gioco. Qualche foto inviata quasi per caso, per puro esibizionismo diceva lei, mentendo. Voleva irretirlo, sfiziarlo, conquistarlo.
Poi il giorno zero. Lui che in uno dei frequenti viaggi di lavoro avrebbe toccato la sua città. Lei che sorride. Lui che propone: e se ci vedessimo per un caffè? Il dialogo che si fa provocante.
“E se ci piacessimo e ci trovassimo irresistibili?”
“Beh, avranno un motel nella tua città...”
“Uno o due... ma faresti sesso al primo incontro?”
“E tu?”
“Con te sì...”
“Ahahahah...”
Rise. Non disse altro. Ma non disse no. Così quel giorno lei prenotò un motel. Lui era già in viaggio quando le mandò la foto della stanza. “È per noi, il caffè lo beviamo dopo” gli scrisse.
E lui: “No”.
“No?”
“No. Non devi correre con me. Non ora. Non mentre penso ancora a lei. Non voglio ferirti. Ti voglio bene. Ma non è il momento né il caso”.
Non voleva ferirla. Impossibile. Già fatto. Lei nuda, in ginocchio, pronta. Lui con lo sguardo all'orizzonte a cercare la strada perduta che l'avrebbe portato dall'altra. Da quella che aveva in testa e non usciva. Solo che lei, da allora, aveva in testa lui. Senza soluzione, senza riposo, senza uscita. E all'improvviso, da quel giorno, erano più vicini che mai. E più lontani di sempre.




LA MESSA DI NATALE

“Hai visto? È venuto anche oggi a suonare, anche se ieri sera ha fatto la messa di mezzanotte...”
Le beghine del primo banco si davano di gomito guardando Vittorio, elegantissimo in completo scuro e cravatta rossa, alto, bello, ben pettinato, sorridente. E seduto alla sua solita postazione all’organo color legno, da cui guidava la cantoria stretta a semicerchio davanti a lui e pronta - lui sperava - per la funzione natalizia. Se solo l’età non avesse intiepidito i loro spiriti, le comari del paesino lo avrebbero desiderato all’unisono, contendendoselo nei sogni più proibiti. Per poi andare a confessarsi perché i pensieri impuri fanno male a Gesù. Età o no, Vittorio era l’idolo della parrocchia di Santa Emerenziana, patrona del paesino. E quando le sue dita iniziavano a suonare il canto d’ingresso, le bocche si spalancavano e le anime si elevavano, come se fosse stato una rock star imbevuta di spirito santo.
Barbara invece veniva guardata con invidia, almeno dalle madri di famiglia che di pensieri impuri ne potevano ancora fare. E talvolta con disprezzo, quando i bambini della prima comunione, a cui lei faceva catechismo, cominciavano ad agitarsi e a fare rumore durante la messa. Ecco - pensavano - quella lì non è neanche capace di farli stare buoni in chiesa. E giù paragoni mentali con il marito organista a cui invece bastava uno sguardo per far funzionare la cantoria come l’orologio del campanile.
Anche lei indossava abiti eleganti: pantaloni neri, scarpe con un po’ di tacco, calze nere velate che si scorgevano a fasciare le caviglie, un bel cappotto che sembrava nuovo, un foulard di seta ben stretto intorno al collo, unica nota multicolore di un abbigliamento monocromatico.
Quello che non sapevano, le beghine e le madri di famiglia, era che il foulard nascondeva il collare di cuoio nero con l’anello per il guinzaglio che Vittorio aveva voluto che indossasse anche per andare a messa e che i riccioli scuri e anarchici che sfioravano le spalle non avrebbero mai coperto abbastanza. Non era l’unico segreto che Barbara era costretta a nascondere. Quelle calze nere erano autoreggenti. E dalle cosce in su non indossava altro se non un piccolo vibratore che lui le aveva regalato per Natale. Era di silicone viola, infilato per una estremità nella figa e con un cuscinetto vibrante nell’altra estremità, esattamente in corrispondenza del clitoride. Era pronto ma non acceso. Se e quando si fosse messo in funzione, dipendeva da lui. E dal controllo a distanza che teneva a portata di mano nella tasca della giacca. Tutto era calcolato: i metri che separavano i banchi riservati ai bambini del catechismo e l’organo color legno erano sufficienti per restare nel raggio d’azione del radiocomando. E soprattutto c’era contatto visivo. Lui l’avrebbe guardata in faccia mentre il vibratore la stimolava. “Chissà se riuscirai a controllarti o farai la troia come al solito” le aveva sibilato nell’orecchio prima di uscire di casa, dopo che lui ebbe ispezionato che tutto fosse in ordine. E aver dato un colpetto al tasto “on”, per misurare con le sue orecchie fini l’intensità del leggero ronzio. “Lo sai che cosa accade a chi fa l’indisciplinato, vero? E sai chi ne pagherà le conseguenze?”. Un “sì signore” mormorato a occhi bassi fu la laconica risposta.
La messa di mezzanotte era stata un disastro. I bimbi eccitati per l’ora tarda e agitati per i regali in arrivo avevano fatto rumore per tutta la funzione. E soprattutto durante tutti i canti. E lui, al ritorno a casa, fu spietato. La spinse a terra carponi appena varcata la soglia, dopo essere rimasto in silenzio per tutto il viaggio di ritorno. “Io detesto l’indisciplina” sibilò lui mentre scompariva in camera da letto per poi tornare con il frustino da fantino in mano. “Io non sopporto che quei bambini del cazzo non capiscano l’estasi della musica. E se loro non la capiscono è perché tu non glielo hai saputo spiegare”. Inutile provare a difendersi. Barbara aveva il groppo in gola, si sentiva umiliata e inadeguata, come solo lui sapeva farla sentire. Sapeva che era il suo modo per spingerla a migliorarsi, a essere colei che soddisfava il suo desiderio di perfezione e obbedienza, la sua fame di controllare il mondo in ogni aspetto così come governava le melodie un accordo dopo l’altro schiacciando con grazia e precisione i tasti di un organo. Lei era uno strumento imperfetto, ancora. Ma avrebbe tentato con tutte le sue forze di diventare quello che lui voleva, colei che sfiorata, toccata, guidata, produceva melodia e a ogni tocco faceva corrispondere una nota, quella giusta.
“Giù i pantaloni” le aveva intimato, con la voce che non ammetteva appello. E lei, slacciandoli rapidamente e scoprendo il culo per la punizione, pensò con nostalgia al momento dopo la cena quando avevano scartato i loro regali ed erano tutti miele e sorrisi. Le frustate furono subito forti e dolorose. E il nodo in gola si sciolse nelle lacrime. Non ci fu consolazione, dopo. Solo la mano di lui ad afferrare i capelli per portarla carponi fino in camera da letto. Poi il comando freddo: “Spogliati”. E infine la mano ancora tra i capelli a spingere la bocca contro il suo cazzo. Venne in fretta, il sapore forte spinto giù in gola a lunghe ondate. Poi le gettò una coperta sul pavimento. Avrebbe dormito nell’angolo della cuccia, sul cuscino grande che sembrava un complemento d’arredo ma non era solo quello. Ed era solo colpa sua, aveva tenuto a precisare Vittorio, prima di spegnere la luce.
Quei colpi avevano lasciato segni vistosi. E facevano ancora male soprattutto quando stava seduta sul legno duro della panca. Per questo fu un sollievo per Barbara quando il parroco entrò annunciando il canto d’ingresso. Si alzò, e il sollievo durò poco. Prima di carezzare i tasti dell’organo con le dita, Vittorio aveva infilato una mano in tasca. E il vibratore aveva cominciato a funzionare. Così, mentre tutta la chiesa ascoltava in estasi le note che rallegravano le anime per la nascita del Signore, Barbara, in piedi a gambe strette mordendosi le labbra, arrossiva provando a tenere a bada le sue sensazioni.
Non fu semplice perché a ogni canto lui lo faceva ripartire. All’alleluia rischiò di venire, ansimando appena e simulando uno starnuto per coprire i versi che la sua bocca non riusciva più a trattenere. Ma resistette, e fu fiera di sé.
Inoltre i bambini vestiti di nuovo, forse stanchi per la lunga notte di attesa, furono più buoni del solito e lui un paio di volte, spegnendo il vibratore poco dopo l’ultima nota, le aveva sorriso. Sembrava contento. “Ma di’ soltanto una parola e io sarò salvata” disse lei ad alta voce, a un certo punto, pregando insieme ai fedeli. Ma il suo sguardo era negli occhi di lui.
La parola arrivò, a messa finita. Lui le si avvicinò, evitando le strette di mano e gli abbracci di auguri dei cantori, che comunque avevano fretta di andare ad azzannare le mille portate del grande pranzo, e la strinse a sé.
“Buon Natale amore”
“Buon Natale”
“Sei stata brava, sono fiero di te. Non sei venuta nemmeno una volta, vero?”
“Nemmeno una volta”
“Proprio brava”
“Ma sono tanto bagnata. Lo sentivo scendere lungo le cosce. Ho paura che si veda...”
Vittorio la abbracciò più stretto: “Stammi vicino. Andiamo a casa ora. E nessuno si accorgerà di nulla. Solo io so che sei una deliziosa porcellina”
“E solo io so che sei il mio signore delle perversioni” replicò lei.
Sopra le loro teste il grande crocifisso, con Gesù che sembrava guardarli. E a Barbara sembrava che sorridesse proprio a loro. Non poteva essere altrimenti: al Dio dell’amore non può che andare a genio ogni forma di amore. Specie quando è così profondo.





HILTON OLYMPIA

Quando la porta si aprì all'improvviso, lui era ancora appisolato. Fu proprio quel rumore a svegliarlo.
Aprì gli occhi. Vide la luce del sole rischiarare la stanza. E il casino che c'era dentro. Una bottiglia vuota di vino e una mignon di whisky presa al minibar sembrava avessero appena smesso di rotolare sul pavimento. Vestiti dappertutto. I boxer sull'altro cuscino del letto a due piazze dove aveva dormito da solo. La tivù ancora sintonizzata sul film porno, che aveva comprato nel bel mezzo della notte dalla pay tv dell'hotel. Le lenzuola sporche e appiccicose sulla sua pelle nuda, dopo le masturbazioni in serie di qualche ora prima.
“Oh mi scusi, non mi ero accorta che ci fosse ancora qualcuno...”.
L'uomo aprì per bene gli occhi. E la prima immagine del giorno fu una ragazza, vestita dell'uniforme blu dell'albergo. Capelli neri, occhi nerissimi, pelle olivastra, curve generose, giovane. Nella mano destra, aveva una scopa.
“Ma... che ore sono?” chiese lui, un occhio alla ragazza e l'altro alla luce che rischiarava la finestra della stanza.
“Un quarto a mezzogiorno” rispose lei. “Questa è l'ultima stanza del mio giro, stamattina. Per fortuna non sono entrata prima”.
Aveva sbirciato la tivù. Sullo schermo c'era ancora il film porno lesbico: due bagnine californiane bionde stavano ancora controllando quanto fossero abbronzate le loro tette al silicone. E lui era troppo addormentato per provare vergogna. Si limitò a sorridere: “Quasi ora di pranzo? Non ho nemmeno fatto colazione...”.
La ragazza non si muoveva: in piedi di fronte al letto, gli occhi fissi sul pavimento, sembrava aspettasse qualcosa.
“Oh... mi vuoi fuori di qui, vero?”. Lui si era seduto sul letto, il petto nudo fuori dalle lenzuola bianche e un po' lise. E la ragazza lo stava guardando.
“Ho solo bisogno di pulire la stanza, signore. Il mio orario sta per finire e se me ne andassi lasciando una camera in disordine, mi licenzierebbero...”.
Lui la stava fissando, dentro la fierezza dei suoi occhi neri, ormai un pochino più sveglio. E non potè fare a meno di immaginarsela dentro quel film porno lesbico, provando a dipingere le curve vistose del suo corpo mediterraneo, nascoste dall'uniforme azzurro scura.
“No, no... rilassati, non ho nessuna intenzione di vederti disoccupata. Mettiamola così: io me ne vado in bagno, m'infilo nella doccia e poi mi faccio la barba, così tu puoi pulire la stanza in pace. E quando avrò finito, ti libererò il bagno. E io posso vestirmi qui”.
Vestirsi... In quel momento lui si ricordò di essere completamente nudo. “Fa parte del lavoro anche cambiare le lenzuola al letto, vero?”.
“Certo” rispose lei, fissandolo ancora con i suoi occhi ribelli.
“Ok, allora non ti dispiacerà se uso queste lenzuola appiccicose per coprirmi mentre esco dal letto e vado in bagno? Non penso che tu voglia vedermi nudo...”.
“Come vuole” disse lei, arrossendo un poco.
“Ok, come voglio” rispose lui ridendo.
Quello che avrebbe voluto davvero, pensava lui, era saltare fuori dal letto e, nudo com'era, trascinarla nella doccia. Invece liberò con uno strattone le lenzuola dal fondo del letto e se le avviluppò al corpo, stando però attento a non coprire troppo. Poi si alzò, una volta per tutte, passandole vicino, molto vicino, con il suo petto e le sue gambe nude e una massa di cotone bianco ammucchiata tutt'intorno ai fianchi.
“Ora di scopare per te” disse lui, con un'occhiata allo strumento che lei reggeva in mano, e ridendo, come per sottolineare il fin troppo evidente doppio senso. Ma subito dopo aggiunse un sorriso che lui voleva sembrasse dolce: “E scusa per i problemi che ti ho creato”. Si era fermato un attimo, una piccola esitazione, per leggere il nome sull'etichetta dell'uniforme.
“Imma. Cioè Immacolata?”.
“Sì”.
“Siciliana?”
“Indovinato”
“E che ci fa una siciliana a Milano?”
“Studio. Cioè, la mattina lavoro e con i soldi che guadagno mi pago una scuola d'arte drammatica”
“Cavolo, un'attrice”
L'occhio di lui scivolò automaticamente allo schermo della tivù, dove altre due attrici stavano ancora giocando con le loro lingue, e non solo. Così, prima di lasciare la stanza, allungò un braccio verso il tavolino, in cerca del tasto off del televisore. Ma, muovendosi, le lenzuola scivolarono giù ancora un pochino, lasciandolo decisamente più scoperto.
L'uomo sorrise in cuor suo: era tutto parte del gioco. “Anche io non c'entro niente con Milano. Sono qui per lavoro”. La guardò, chiedendosi se avesse esplorato abbastanza laggiù, verso la linea curva del suo sedere. “Ma adesso basta chiacchierare. Tu sei qui per lavorare, o farai tardi alla lezione di recitazione”.
Sorridendo, fece per andarsene, ma prima le sfiorò appena una guancia con due dita. Poi entrò in bagno, stando attento a non chiudere del tutto la porta. Ovviamente.
Una volta in bagno, l'uomo lasciò cadere le lenzuola sulle piastrelle fredde del pavimento. Poteva sentire il brivido della ceramica blu sotto i suoi piedi nudi. E poteva guardare il suo corpo nel grande specchio del bagno della stanza 125, hotel Hilton, quattro stelle. Tutte meritate, stava meditando tra sé e sé.
Nel silenzio, ascoltò il suono dei passi veloci di Imma, nella stanza accanto. Rise all'immagine di quell'uomo nudo allo specchio, pensando che a Imma toccava sbrigarsi, per arrivare in tempo alla lezione. Gli vennero in mente i boxer neri di Dolce&Gabbana, che aveva dimenticato sul cuscino. Imma avrebbe dovuto spostarli, toccarli, per mettere le lenzuola pulite.
Se fosse stata una ragazza monella, pensò, avrebbe tolto i boxer e lasciato le sue, di mutandine, su quello stesso cuscino. E l'immagine di Imma che si sfilava il perizoma sotto la gonna dell'uniforme lo fece eccitare un bel po'. Allo specchio vide il suo cazzo diventare un po' più grosso. E fu con quella sensazione dentro che si mise ad armeggiare con gli asciugamani. Li prese dal porta-asciugamani che stava vicino alla doccia e li appoggiò più lontano, sul pavimento, accanto alla collinetta bianca delle lenzuola sporche.
Aveva progettato tutto in un istante. Entrare nella doccia, poi chiamare Imma, convincerla ad entrare in bagno, farsi passare gli asciugamani, lasciando che si avvicinasse il più possibile ai vetri appannati del box doccia, e poi... Nemmeno quando l'acqua tiepida lo stava carezzando, lui riuscì a rilassarsi: pensava solo al suo progetto malefico, e intanto il suo cazzo cresceva, cresceva.
Prese la boccetta di docciaschiuma griffato Hilton e ne versò un poco sulla mano. Carezzò la sua pelle con quel buon profumo, di gran classe. Era ancora abbronzato, benchè fosse autunno inoltrato. Il sole della Sicilia, la Sicilia di Imma, era così possente, d'estate.
Era stata l'ultima vacanza con la sua ragazza. In auto, nel viaggio di ritorno, lui stava pensando di chiederla in sposa. Invece, dopo quel lunghissimo silenzio che lui aveva interpretato come stanchezza e che gli aveva lasciato pensare a come dirglielo, fu lei a parlare. Con la freddezza di chi possiede una pistola. E sa come usarla: “Ho un altro”. Il suo migliore amico, per giunta.
Dal giorno dopo quel giorno, mentre smaltiva una colossale piomba di cuba libre, aveva deciso di cambiare vita: sarebbe stato egoista, avrebbe pensato solo a divertirsi. E a scoparsi qualunque ragazza lo avesse trovato appena un po' attraente. Tra l'altro aveva scoperto di piacere abbastanza alle ragazze. E ogni volta che riusciva a portarsene a letto una, pensava a quanto occasioni aveva perso, per stare con quella puttana della sua ex.
Ora c'era Imma. E lui già la immaginava, l'ultima perla della sua collezione. Guardò in giù. Duro, durissimo. Non vedeva l'ora di mettere in atto il piano.
“IMMAAAAAA...”
Chiuse anche il rubinetto, per farsi sentire.
“IMMAAAAA... HO DIMENTICATO GLI ASCIUGAMANIIII...”
Stette in silenzio un momento, aspettando una risposta.
“PER FAVORE IMMAAAAA...”
Dei passi, finalmente, venivano verso il bagno. Si voltò un pochino, dentro la doccia. Quando lei avrebbe aperto la porta, era il suo profilo che avrebbe visto, nell'ombra opaca del vetro appannato. Non avrebbe potuto fare a meno di notare la sua mano destra giocare piano con la sua erezione. La porta si mosse. Lui vide l'ombra di Imma.
“Dove glieli lascio, signore?” disse, tenendo in mano gli asciugamani puliti. La sua figura riempiva la luce della porta. E i suoi pensieri. Così vicina, così sexy. Lui era il cacciatore, lei era la preda. Aprì un pochino la porta del box doccia, quanto bastava perchè lei potesse vedere uno spicchio di corpo nudo.
“Mi basta il più grande” disse, sporgendo fuori un braccio. Anche lei allungò il braccio. Così da vicino, da quasi vicino, lui credette di vederla arrossire. O forse era solo il calore di quel bagno pieno di vapore.
Prese l'asciugamano e lo fece sparire dentro i vetri appannati. La ragazza restò lì, quasi paralizzata, per qualche secondo. Abbastanza perchè lui spalancasse la porta della doccia e saltasse fuori, con l'asciugamano maldestramente legato alla vita.
“Mille grazie Imma” disse, sfiorandole la guancia con un bacio, mentre quasi la scavalcava per avvicinarsi alla porta. “Ora puoi pulire il bagno, mentre io me ne vado di là a rivestirmi?”
Imma annuì, senza fiatare. E chiuse la porta del bagno, appena lui fu fuori. Troppo presto. Tutto il necessario per le pulizie era nell'altra stanza. I detersivi, lo spazzolone, la scopa...
Che fare? Andare di là dall'uomo nudo? O stare in bagno, facendo finta di pulire? La porta si aprì di nuovo, scuotendola dai suoi dubbi.
“Ehi Imma, potresti aver bisogno di questa mercanzia per pulire il bagno”. Lui aveva ancora l'asciugamano attorno alla vita. Perle d'acqua scintillavano sul suo petto e sui suoi capelli scuri.
“Sì... grazie signore” bisbigliò Imma, guardando l'orologio.
“Sei in ritardo, vero?”
“Sono le 12 e un quarto. E il mio orario è fino a mezzogiorno. Quando finisco qui, devo correre di sotto, togliermi l'uniforme, volare a casa, farmi una doccia e andare a scuola”.
Guardò l'orologio un'altra volta: “Non ce la farò mai ad arrivare in tempo...”
L'uomo sospirò, facendo finta di pensare a una soluzione, con lo sguardo di un padre premuroso a una figlia incasinata. “Fai così: qui non pulire. Non lo dirò a nessuno” disse, disegnando un cerchio in aria con un dito, come a misurare il perimetro del bagno. “Anzi, se sei proprio così in ritardo...”. La ragazza lo guardò con un punto interrogativo negli occhi, come se nelle parole che stava per pronunciare ci fosse l'unica speranza di salvezza.
Lui se ne accorse, sentì di aver conquistato un potere inatteso. Così sospirò, gonfiò il petto e, con voce un po' solenne, fece la sua offerta: “Potresti fare la doccia qui, così non ti resterà che toglierti l'uniforme, metterti i vestiti normali e andare a scuola, senza passare da casa. Scommetto che così farai in tempo”.
La ragazza non disse una parola, gli occhi fissi al pavimento. Lui sorrise: “Non preoccuparti, io chiudo la porta e me ne vado di là, buono buono. Sarà il nostro piccolo segreto. Tu adesso fai la doccia e mettiti tranquilla”.
Imma guardò di nuovo l'orologio. Era una follia, una follia totale. Ma non poteva far altro che accettare. “Ok” disse.
“Ok?”
“Ok, ma adesso, per favore, vada di là e chiuda la porta”
“Non preoccuparti” disse lui, facendo l'occhiolino. E chiudendo la porta.
Una volta nella stanza, l'uomo si stese sul letto pulito, chiudendo gli occhi e respirando il profumo buono di sapone delle lenzuola. Aveva deciso di non rivestirsi, non ancora. E non potè fare a meno di immaginare che cosa stesse accadendo in bagno. Imma che slacciava i bottoni della sua uniforme blu, Imma che la lasciava cadere sul pavimento, Imma che sganciava il suo reggiseno nero, Imma che sospirava di sollievo, lasciando i suoi grandi seni liberi da quella morsa sempre troppo stretta, Imma che serrava le labbra, mentre i suoi capezzoli s'indurivano un pochino, al contatto con l'aria. Imma che si levava le scarpe e poi i collant, lasciando liberi anche i suoi piedini. E un brivido freddo le faceva venire la pelle d'oca. Imma che sfilava rapida le sue mutandine.
Il video nella sua mente fece un fermo immagine. Che mutandine? Quelle bianche di cotone, della nonna? O un perizoma sexy di seta e pizzo? E i peli? Rasati del tutto o appena un po' arrangiati? O lasciati liberi di crescere lì intorno? Pensava, pensava, e si eccitava un'altra volta, mentre lo scroscio d'acqua della doccia era l'unico rumore.
Quando anche quello cessò, fu come una sveglia. Aveva fatto in fretta, Imma. Dev'essere davvero in ritardo, pensò lui, cercando di nascondere la sua erezione prima che lei uscisse dal bagno. Ma Imma non usciva.
«Signore... mi scusi» disse invece, con la voce un po' timida.
«Sì» rispose lui, ancora disteso sul letto.
«Ho paura che in bagno non sia rimasto nessun asciugamano. Le spiacerebbe portarmene uno?».
L'uomo sorrise. L'unico asciugamano della stanza, che lui sapesse, era quello che aveva ancora legato attorno alla vita. Si alzò e andò verso la porta del bagno, ancora socchiusa. La sua mente tornò a immaginare lei, che aspettava di veder sbucare il suo braccio con l'asciugamano. Così aprì un pochino di più la porta, finchè non vide l'ombra della sua figura. Stava tutta addossata al muro, per non farsi vedere.
«C'è solo un piccolo problema» disse lui, pensando a quanto fosse divertente il giochino che stava per fare. «Non mi sono ancora vestito. Così temo che uno dei due dovrà restare nudo, per adesso».
Spinse di più la porta ed entrò: la ragazza era nascosta dietro la porta, le braccia e le mani sul suo corpo per coprirsi meglio. Tutto quel che vedeva erano le goccioline d'acqua che scendevano lungo le sue guance e il suo braccio destro, piegato a nascondere i seni.
«E credo proprio che tocchi a me» concluse lui, mentre lasciava scendere lentamente l'asciugamano lungo i suoi fianchi.
Quando fu per terra, attese ancora un attimo, prima di afferrarlo, il tempo necessario perchè lei potesse vedere bene il suo corpo nudo. Infine glielo porse. Poteva vedere i suoi occhi osservarlo dall'alto in basso, come se lo stesse passando allo scanner. A lungo.
«Allora, lo vuoi o pensi di restare nuda e bagnata?».
Alle parole di lui, Imma si scosse. Un lampo di fierezza percorse i suoi occhi neri. «Naturalmente no» disse. E con un passo deciso, uscì dal suo nascondiglio.
Un secondo, due secondi, poco di più.
Per un tempo così breve lei restò nuda solo per gli occhi di lui. Vide le sue grandi tette, i suoi capezzoli bruni resi turgidi dall'acqua della doccia, il suo corpo pieno di curve pericolose, i suoi fianchi dove c'era ancora il pallido segno dell'abbronzatura. Infine sbirciò la sua fica. O meglio, i riccioli neri dei peli che la nascondevano.
Tutto in due secondi, prima che lei, coprendosi con l'asciugamano, lo risvegliasse con una frase finto arrabbiata: «Ha intenzione di stare qui dentro mentre mi rivesto?».
Parlava, e gli sorrideva, come se avesse iniziato a giocare anche lei. Lui sorrise a sua volta: «No, ora me ne vado. O arriverai davvero in ritardo».
Uscì, con studiata lentezza. Lei non aveva ancora visto il suo sedere, quello che per la sua ex ragazza era il suo piatto forte. Poi chiuse la porta e la lasciò sola. Imma non ci impiegò molto. Giusto il tempo, per lui, di trovare un paio di boxer puliti e di infilarseli.
«Dunque, grazie mille signore» disse lei, di nuovo avvolta nel suo abito blu da lavoro. Aveva un grande sorriso. Forse era contenta di andarsene. O forse, come sperava lui, il gioco le stava incominciando a piacere.
Fece un passo verso di lui e, avvicinando il viso al suo, sussurrò, con un accento siciliano così dolce che lo mandò in orbita: «Sarò di turno anche domani mattina. Forse dovrò trovare il modo di ringraziarla. Ma lei mi prometta di farsi trovare pronto...».
Un bacio sulla guancia, e Imma sgusciò rapidamente fuori, lasciandolo lì a provare a indovinare che regalo lei avesse in mente di fargli l'indomani.
Il giorno passò in fretta. L'uomo aveva in programma un paio di riunioni ed una cena di lavoro con un gruppo di noiosissimi partner commerciali inglesi. Bevvero molto vino rosso e altrettanto whisky.
Gli inglesi, come al solito, si ubriacarono subito. E, quando non poterono fare altro che trascinarsi fino al taxi, lui era ancora abbastanza sobrio. E decisamente annoiato. Ma era anche troppo stanco, dopo le avventure solitarie della notte precedente. Così si addormentò subito. Senza nemmeno comprare un altro film porno alla pay tv.
Al mattino, invece, si svegliò fin troppo presto. Con un'enorme, imbarazzante erezione. Aveva fatto un sogno su Imma. Lei che entrava nella stanza, intimo nero, calze, reggicalze e dècolleté nere tacco nove. Ballava per lui, improvvisando uno spogliarello...
Cercò di resettare la mente mettendo a fuoco un altro pensiero e accese la tv. I telegiornali del mattino. Era troppo presto. Aveva tempo di fare le cose con calma. Una lunghissima doccia, barba e dopobarba, un po' di stretching per tenersi in forma. Poi tornò a letto, nudo, cercando di concentrarsi su quel libro che aveva iniziato a leggere due mesi prima. E non aveva ancora finito.
Non ci fu verso. Dopo quattro o cinque parole, la mente tornava a Imma, e a tutte le fantasie su quello che avrebbero presto fatto insieme. Non pensava nemmeno alla possibilità che lei non sarebbe ritornata. Sapeva che ormai era dentro il gioco. E quel gioco non le dispiaceva affatto.
Così non fu sorpreso, quando sentì la porta della sua stanza aprirsi, senza che nessuno avesse bussato. Ma una sorpresa ci fu, eccome.
«Quindi sei tu l'uomo d'affari così sexy che la sua fama ormai ha raggiunto ogni angolo di questo hotel?».
Una ragazza. Alta, magrissima. Mai vista prima. Capelli bruni che carezzavano le spalle. Lunghe gambe avvolte da collant neri. E, sopra, calzettoni a strisce che le avvolgevano il polpaccio di mille colori. Ai piedi, un paio di DocMartens color melanzana. Minigonna nera. Sulla sua maglietta bianca e attillata c'era un grande cuore scintillante. I suoi seni, così piccoli che non si notavano. Tutto il contrario di Imma.
L'uomo non disse una parola. Ma non smise di guardare la ragazza misteriosa, con un punto interrogativo negli occhi.
«Vuoi sapere chi sono?» disse lei, come per tradurre in parole l'espressione dello sguardo di lui. «Beh, non essere troppo curioso...».
Si sedette sul bordo del letto, proprio accanto a lui. Aveva una strana voce, profonda e rauca come chi ha fumato un milione di sigarette. «La mia amica Imma mi ha parlato tanto di te. E mi ha chiesto se avevo voglia di conoscerti».
La ragazza si accomodò meglio sul letto, in modo da stabilire un contatto tra il suo corpo e quello di lui.
«Era sicura che ti avrei trovato proprio qui».
E, dicendolo, appoggiò una mano sul lenzuolo bianco, dove c'era la parte alta della sua coscia.
«Aveva ragione...».
La mano salì un poco di più. L'uomo contrasse i suoi muscoli, d'istinto.
«Mi ha chiesto un altro piccolo favore...».
La mano raggiunse la meta. Le dita di lei carezzavano l'onda formata dal suo cazzo già duro sul cotone bianco delle lenzuola.
«Mi ha chiesto di tenerti compagnia, fino al suo arrivo».
L'uomo finalmente si mosse, afferrando la mano di lei.
«Ehi, fermo... C'è una sola regola in questo gioco. Io posso toccarti. Tu no».
L'uomo lascio libera la mano di lei. E aspettò in silenzio.
«Allora, fammi dare un'occhiata...» disse lei, spostando il lenzuolo e scoprendolo del tutto.
«Oh, nudo?» sorrise. «Allora non stavi aspettando visite».
Gli occhi di lei scesero fino al suo cazzo, ormai in erezione completa.
«O forse sì?»
Lo afferrò con una mano e spinse verso il basso la pelle, per scoprire del tutto la cappella.
«Mmmmmmm... ho proprio l'impressione di sì».
Poi si chinò sul membro e cominciò a baciare e leccare con lenta dolcezza la punta. La sua mano sinistra gli carezzava le cosce. La destra stringeva forte la base. La bocca adesso lo stava gustando come si assapora un gelato. Lui si sentiva già esplodere. In fondo non aspettava altro dal giorno prima...
«Oh, mi piacciono i grossi cazzi vogliosi» disse la ragazza sconosciuta, prima di aprire la sua bocca e farcelo scomparire dentro.
Poteva sentire la sua lingua che lo carezzava, mentre lei muoveva su e giù la testa. Mugolò. E lo fece ancora più forte, non appena lei lasciò scivolare la sua mano dalle cosce alle palle.
Poteva sentire le sue dita che giocavano, tirandole con dolcezza e poi accarezzandole, tenendole nel palmo della mano come in un nido.
Lui provò ad allungare le braccia più che poteva, ai lati del suo corpo. Avrebbe voluto sfiorarla, no, toccarla, guidare la sua testa al ritmo che lui desiderava. Ma non poteva. C'era un patto fatto di una sola regola e non aveva intenzione di romperlo. In fondo, il gioco gli piaceva. E molto. E gli piaceva sapere che lei aveva il controllo. Poi, più tardi, sarebbe toccato a lui.
«Mmmmmmm...» fu il turno di lei, di mugolare più forte, lasciando per un attivo che il cazzo si liberasse dell'abbraccio della sua bocca.
Lui la vide, mentre si leccava le labbra con voluttà. «Gustoso sapore di uomo» disse, prima di giocare con la punta della sua lingua con il buchino alla sommità del suo cazzo.
La sua mano lasciò le palle, per intrufolarsi un poco più giù, là dove c'è il grande e sensibile muscolo che governa l'erezione.
«Ahhhhhh...»: lui non riuscì a pronunciare nessun altro suono, mentre sentiva la sua mano giocare con il perineo.
La ragazza sapeva quello che stava facendo. E quando la prima goccia biancastra scivolò fuori dal suo cazzo, lei era lì, pronta a catturarla con la sua lingua.
Era il primo, inequivocabile segnale: era pronto a venire. Lei sapeva anche questo. E cominciò di nuovo a succhiare quel cazzo, lasciando che raggiungesse fino in fondo la sua bocca.
La mano, intanto, continuava ad esplorare territori segreti, fino al buchino nascosto. Due dita cominciarono a titillarlo. Lui, sorpreso e preoccupato, contrasse i muscoli delle natiche. Non gli era mai successo. Nessuna lo aveva mai fatto, men che meno la sua ex. Ma si sentiva nelle sue mani. E decise di non opporre resistenza.
Nemmeno quando una delle due dita cominciò a penetrarlo.
Anzi, mugolò e gemette ancora più forte, così stravolto dall'eccitazione che saliva e saliva, da non essersi nemmeno accorto di Imma. Era nella stanza, ma non l'aveva vista. Almeno non fino a quando uno strano rumore lo distrasse per un istante.
Sollevò lo sguardo dalla testa della ragazza misteriosa che si prendeva cura del suo cazzo e la vide: era accanto al letto, con il suo solito abito blu da lavoro. Ma stavolta aveva una macchina fotografica in mano. E girava da una parte all'altra della stanza, alla ricerca dell'angolazione e dell'inquadratura perfetta per l'immagine successiva.
«Buongiorno signore» disse, con un sorriso beffardo. «Non è un problema se resto qui, vero?».
Lui non rispose. Non ci riuscì. La ragazza senza un nome lo stava portando all'estasi.
Se questo è l'inizio, pensava, che cosa succederà dopo? Imma non smetteva di scattare foto, mentre la brunetta mugolava e succhiava. Anche lui stava facendo un sacco di rumore, ormai.
«Ancora... ancora» quasi gridava, senza preoccuparsi di destare l'attenzione di quelli nelle stanze accanto.
Un urlo ancora più forte, e la ragazza misteriosa si trovò la bocca piena del suo seme.
Era venuto all'improvviso. Ma lei sembrava non curarsene. Lasciò uscire il cazzo dalla bocca, deglutì e poi leccò con pazienza tutte le gocce bianche che stavano scivolando lungo il membro ancora duro.
L'uomo aveva il fiatone e gli occhi quasi annebbiati. Ci mise un po' a notare che la ragazza aveva una mano infilata sotto la minigonna, come per masturbarsi.
«Allora è piaciuto anche a te» riuscì a dire, con un sospiro, alla ragazza che stava ancora leccando ogni goccia del suo sperma.
«Sono sicura di sì». La voce era quella di Imma, che aveva risposto al posto suo, avvicinandosi alla ragazza e appoggiandole una mano sulla testa.
Poi, senza aggiungere altro, afferrò un pugno di capelli e tirò.
«Ma cosa...» riuscì solo a dire, senza finire la domanda.
Quei capelli neri erano una parrucca, che ora era nelle mani di Imma. Nascondevano una testa di capelli quasi rasati.
Imma aiutò la ragazza ad alzarsi in piedi, e poi le sollevò la minigonna.
«Lascia che ti presenti Giuseppe, un mio compagno di corso alla scuola di recitazione».
Ora che la gonna non nascondeva più i collant neri, l'uomo capì davvero che la misteriosa ragazza non era una ragazza. Dentro il tessuto trasparente, c'era un cazzo. Ed era eretto, come il suo poco prima.
Giuseppe ci mise un attimo a tirarlo fuori da quella prigione di nylon, e cominciò a masturbarsi in fretta proprio lì, sopra di lui.
Imma rideva: «E' il gay più dolce e più porco che tu abbia mai visto, non è vero?».
L'uomo era come inchiodato al suo letto. Fece in tempo solo a nascondersi sotto il lenzuolo, improvvisamente pudico per la sua nudità.
Giusto in tempo. Giuseppe gridò forte, mentre le gocce del suo sperma volavano fino ad atterrare sul cotone bianco, unica barriera tra loro e lui.
Allora Imma fece un buffetto al cazzo di Giuseppe, bagnandosi un dito e poi passandolo sulla sua lingua.
«Lascia che ti dica una volta di più grazie per la doccia di ieri, gentile signore. Come vedi, oggi è stato il tuo turno di fare una specie di doccia. Fa' un buon ritorno ai tuoi affari».
Imma parlava, e intanto aiutava Giuseppe a rimettersi i collant e la minigonna. Poi lo prese per mano e uscì senza dire una parola.
L'uomo non si era mosso dal letto. Nemmeno quando, pochi secondi dopo, la porta della stanza si riaprì.
Imma fece capolino solo con la testa, con un sorriso demoniaco e il solito lampo orgoglioso nei suoi occhi scuri.
«Mi raccomando» disse. «Non dimenticarti di me. Mai».




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