AGGIUDICATA
“Ti piaci?”
La voce di lui è allegra, mentre la guarda fare la civettuola allo specchio con il vestito nuovo. Taglia impeccabile, come se fosse su misura, perché lui la conosce bene. A suo gusto, ma non estremo da essere sgradito a lei. E sexy, senza essere volgare.
Lei fa un'ultima giravolta allo specchio. La gonnellina taglio charleston anni Trenta si solleva e scopre l'orlo delle parigine, nere come il vestito e le scarpe con il tacco. E nere come la biancheria, di pizzo raffinato, con le trasparenze al punto giusto.
“Sei pronta?”
Lei fa sì con la testa e tiene gli occhi bassi. Se è quello che lui desidera – pensa – che accada. Ma è anche quello che lei desidera. E poi dopo quel bellissimo regalo, non potrebbe mai dirgli di no.
Lui si avvicina con l'ultimo accessorio rimasto avviluppato nell'attaccapanni, un foulard di raso nero. La guarda in viso con un sorriso carico di sottintesi, con un dito sfiora la guancia colorata di cipria, con gli occhi controlla che il trucco sia impeccabile, il rossetto abbastanza marcato da potersi notare da lontano, gli occhi resi grandi e profondi dalla matita.
Poi scivola alle sue spalle, le accarezza la pelle appena sotto la nuca e lei sospira all'improvviso, scossa da un piccolo brivido. Infine il foulard diventa una benda, legata saldamente in modo da coprire i suoi occhi. Da adesso guiderà lui.
“Stai bene?”
“Sì”
“Se hai ripensamenti dovrai dirmelo ora. Quando saremo di là non ci sarà via d'uscita. Anche se un tuo ripensamento porterebbe a una severa punizione”
“No, Signore. Nessun ripensamento”
“Mani dietro la schiena, allora. E andiamo. Ci aspettano”
Lui la prende per un braccio. Una stretta forte, decisa, severa. Eppure dolce. I passi risuonano sul parquet: i tacchi di lei, acuti e leggeri, le scarpe eleganti di lui, con un suono più basso e forte. Lui la ferma. Si sente lo scatto di una porta. Ancora passi, un brusio di sottofondo. Un gradino. Un altro.
“Buonasera signore e signori. E benvenuti a questo appuntamento originale con la bellezza”
La voce di lui, forte e decisa. Nemmeno un'esitazione. Quelle sono tutte a fare pressione sul cuore di lei, che batte così forte che sembra voler uscire dal vestito anni Trenta. Lei sa che cosa sta per succedere, anche se ha gli occhi bendati. Lui le ha spiegato tutto. E lei si è accorta di desiderarlo. Oggi lo renderà fiero, gli mostrerà la sua gratitudine. E sarà coraggiosa. E forse bagnata. O forse bagnata lo è già.
“Siete persone raffinate e di buon gusto” continua la voce di lui. “Sapete come mettervi in relazione al bello. Ma questa volta il bello è in carne ed ossa. E per poterlo contemplare da vicino, assorbire, toccare, usare, dovrete essere disposti a pagare”.
Lei ascolta i mormorii che arrivano da lontano, ma non percepisce le parole. Commenti su di lei, immagina. E darebbe un giorno di vita per ascoltarli.
“Naturalmente” prosegue lui a interrompere il brusio che era salito di tono “prima potrete farmi le domande che ritenete opportuno. E avvicinarvi per controllare da vicino al cospetto di quale bellezza avete avuto la fortuna di avvicinarvi”.
Bagnata. Questa volta lei avverte la sensazione quasi fisica di eccitazione provocata dalle sue parole che la magnificano. Così severo e dolce, così esigente e comprensivo. Avrebbe fatto di tutto per lui.
“È mai stata dominata da una donna?” chiede una voce femminile.
“No” risponde lui. “Ma è una sua curiosità. E sono certo che si comporterà in modo da rendermi fiero”. La mano di lui a strizzare il culo di lei: “Non è vero, signorina?”
Lei annuisce, senza parlare. E il contatto con quella mano moltiplica il suo desiderio.
“Pratica il pissing?” chiede una voce maschile.
“Con un sovrapprezzo” scherza lui. La sala ride. Lei sente un brivido lungo la schiena. Non lo ha mai fatto. Non lo trova eccitante per nulla. Ma deve compiacere lui. Non può deluderlo. Può solo sperare che qualcuno offra di più e abbia altri gusti.
“È abbastanza flessibile da sopportare di essere legata?”
“Adora la costrizione” dice lui. “Potrà metterla alla prova. Ma perché non vi avvicinate a guardarla da vicino? Sembrate più timidi di quanto mi aspettassi...”
Lei sente rumori di seggiole che scivolano sul pavimento. Poi passi. Poi la sensazione di occhi su di lei. Vicini. Sempre più vicini.
“Potete toccare” sentenzia lui.
Una prima mano curiosa le sfiora la guancia, poi scende lungo il collo, quasi cingendolo come un secondo collare, oltre a quello di seta nera con il ciondolino ad anello che lui le ha donato. Una seconda mano punta al sodo: sente la gonnellina sollevarsi, il palmo afferrare una natica. Un'altra mano fa lo stesso davanti, sfiora la pancia, scende. “Depilata, bene...” dice una voce sconosciuta. “E bagnata” aggiunge un'altra voce.
“Sei proprio una porcellina impaziente” dice lui. “Ma questo mi fa intuire che forse possiamo cominciare. Sollevati la gonna, signorina”
Lei obbedisce, mentre le mani sconosciute si scansano.
“Il primo dettaglio in vendita sono le mutandine di pizzo nero della mia signorina, già fradicie dei suoi umori. Voi non potete ancora saperlo, ma lei si bagna con grande facilità. E con grande abbondanza. E sono certo che tra voi c'è qualche cultore del genere”.
“Venti” dice una voce.
“Venti euro? Davvero? Questa è un'offesa. Pensate che la mia signorina valga così poco?”
“Cinquanta” quasi urla la voce femminile, come a correggere l'offerta precedente.
“Settanta” dice un'altra voce.
“Cento”. Ancora la donna.
“Non ringrazi?” interviene lui. E lei, con un filo di voce: “Grazie”.
Una sculacciata forte e improvvisa le strappa un piccolo grido di spavento e dolore. “Grazie che cosa? Non ti ho forse insegnato le buone maniere?”
“Grazie... signori... e signore”
“Prego”. Dice una voce. “E centoventi”.
“Ora ci avviciniamo a una cifra rispettosa di tanta bellezza. Centoventi è l'offerta più alta... nessuno rilancia?”
“Centotrenta” ribadisce la donna. Ci tiene. Lei ne è lusingata. E sente ancora qualche goccia di nettare umettare il pizzo nero.
“Centoquaranta” dice deciso l'uomo senza volto.
“Oh si combatte... Centoquaranta e uno... centoquaranta e due...”
“Centocinquanta!” sbotta quasi stizzita la donna.
“Basta così” sbuffa l'uomo.
“Abbiamo un vincitore” dice lui con voce allegra. “Le mutandine bagnate della signorina andranno alla Miss in terza fila. Prego, venga a ritirare la sua conquista. Preferisce sfilarle lei o lasciare che se le sfili la signorina e che poi gliele porga?”
“Faccio io” dice lei, mentre il rumore di passi lascia intuire che si stia avvicinando.
Lei sente le mani sui fianchi, le dita scivolare sotto il bordo delle mutandine. E poi sfilarle via quasi di fretta.
“È bagnata come una puttanella. Restano appiccicate alla vagina” sentenzia la vincitrice, liberando il trofeo dalla prigione delle gambe. E liberando lei da ogni residuo pudore.
Poi un timido applauso. Probabilmente le sta mostrando agli altri concorrenti. E un soffio di voce accanto al suo orecchio: “Non abbiamo ancora finito io e te, puttanella”.
“E ora” dice la voce di lui, interrompendo di nuovo il brusio, “credo che metteremo in vendita il diritto per uno di voi di scegliere come volete che la signorina sia vestita da qui alla fine della serata. Vestita o svestita, naturalmente. Intanto tu, lascia pure cadere quella gonnellina. Ormai hanno capito come sei fatta. E soprattutto hanno capito che sei bagnata e pronta...”
“Cento” dice una voce convinta. Sembra del tizio che rivaleggiava con la Mistress per le mutandine.
“Centoventi” rilancia un altro.
“Duecento” dice con rabbia il tizio di prima.
La sala rumoreggia. Una voce mai sentita azzarda: “Duecentodieci”
“Duecentocinquanta”. Ancora lo sconosciuto appena sconfitto. Sembra che ora non voglia sentire ragioni.
Silenzio. “Nessun'altra offerta?” dice lui.
“Duecentosessanta” replica una voce tenue dal fondo.
“Trecento, cazzo. Trecento”. Lei lo immagina guardare come un cowboy gli altri concorrenti, come se gli occhi fossero pistole che li tengono sotto tiro. E guai se qualcuno apre la bocca.
“Trecento e uno... trecento e due... trecento e tre. Aggiudicato al signore. Congratulazioni”. Altro applauso. “Preferisce dire alla signorina che cosa deve indossare o levarsi o ci pensa lei con le sue mani?”
“Voglio vederla mentre si spoglia. E concederò la visione ai colleghi presenti”.
“Bene, da che cosa cominciamo?”
“Lei sarà nuda. Terrà solo le calze autoreggenti e le scarpe con il tacco”.
“Su signorina, hai sentito il generoso Master? Ha speso un sacco di soldini per te. Fallo contento”
Lei non dice una parola e comincia piano ad armeggiare intorno al vestitino. Ne afferra i lembi inferiori, lo solleva sopra la testa, lo lascia cadere sul pavimento. Poi giocherella con le spalline del reggiseno, abbassando prima una e poi l'altra. Infine il gancetto. E il reggiseno va a fare compagnia al vestitino.
“Signore, la benda?” chiede lei.
“Domandiamo al compratore” dice lui.
“Via, via...” sentenzia lo sconosciuto, un po' di fretta.
Tocca a lui snodarla. Lei, con le braccia dietro la schiena, aspetta. Accoglie il fiotto di luce a occhi socchiusi. Poi mette a fuoco. È seminuda, in piedi, davanti a una dozzina di Dom e a una Domme, ansiosi di comprarla. Vorrebbe fissarli, dare un volto a ogni voce udita. Ma non può guardarli fissi in viso senza apparire troppo sfacciata. È così spaventoso. E così eccitante...
“La prossima asta riguarda queste” dice lui, mostrando al mondo due catene, ognuna con due pinze metalliche alle estremità.
“Cinquanta” dice la prima voce convinta. Ora lei può vederli in viso. E può vedere il lampo di eccitazione quando immaginano quello che potranno farle: capelli bianchi ordinatissimi, un po' oltre la mezza età, una specie di Sean Connery mediterraneo con una barba solo apparentemente incolta e due occhi neri che trafiggono i muri.
“Settanta” replica la seconda voce. Appartiene a un uomo molto più giovane: i tatuaggi che ornano il collo sbucano dal colletto dello smoking, a creare un curioso contrasto. Sembra muscolosissimo. E fortissimo. Da averne paura.
“Settantacinque” rilancia la donna. Bionda, capelli raccolti in uno chignon. Occhi chiari color del ghiaccio. Mani sottili ornate da anelli. Eppure forse è colei che teme di più.
Lei li divora con gli occhi. Li desidera tutti. O meglio desidera il loro desiderio. E sa che attraverso questo gioco renderà lui felice e orgoglioso. È la tempesta perfetta.
L'asta arriva a centottanta. Un tizio magro e pallido dalla faccia timida si alza dalla sedia: è alto, sembra un ingegnere nucleare che non esce dal suo laboratorio nemmeno per prendere una boccata d'aria. Ma per una volta l'oggetto del suo esperimento è lei.
“Signorina, ti sei chiesta perché ci sono due paia di pinze con la catena?”
Lei fa no con la testa ma immagina.
Il tizio arriva, prende la prima catenella, senza nemmeno guardarla in viso afferra un capezzolo, lo strizza strappandole un urletto di dolore, aggancia la morsa di metallo. Lei sente pungere e tirare, si morde il labbro e quasi lascia il segno quando l'operazione viene ripetuta sul secondo capezzolo. Il tizio tira un po' la catena, per saggiare quanto salda sia la presa. Lo è, e lei sospira il suo disagio, meritandosi uno sguardo di ammonimento di lui. Allora abbassa gli occhi, mentre il tizio con la seconda catenella tra le dita si china tra le sue cosce. “Allarga le gambe” ordina. E lei lentamente le divarica. Era proprio come pensava. E temeva. Le dita del tizio percorrono la linea della sua vagina. Lei arrossisce. Sa di essere bagnata. Il tizio si asciuga sulla pelle della sua pancia e riprova. Ma lì tra le piccole e le grandi labbra è tutto scivoloso. Allora si alza in piedi di scatto e con la mano bagnata del suo nettare, la colpisce con un ceffone alla guancia: “Troietta, sei insopportabilmente eccitata. Pensi di venire prima ancora che ti tocchiamo?”.
L'umiliazione più profonda. Da uno sconosciuto ingegnere nerd. L'apoteosi del contrasto. E una lacrima che, irrimediabilmente, le solca la guancia.
Lui interviene, stringendogli il polso con mano ferma: “Ehi, niente schiaffi. Non senza il permesso esplicito mio. Non è quello che mi aspetto da un vero Dom”. Lui bisbiglia un “non succederà più” e torna a chinarsi tra le cosce di lei. Lei sente le dita afferrare strette le grandi labbra e poi il pizzicotto implacabile della morsa che ne stringe una. La cosa si ripete con l'altra e come con i seni, il tizio magro si toglie lo sfizio di dare un paio di strattoni: “Sei bagnata ma non abbastanza per non reggerli addosso. Bene”. Poi, come da patti, si allontana.
“La prossima offerta, signore e signori, consentirà al vincitore di scegliere in quale posizione costringere la signorina perché sia a disposizione del vostro volere”. Lui parla e nel frattempo si sposta verso un tendone bordeaux. Lo scosta di lato e in un angolo della stanza compaiono gli attrezzi: una croce di Sant'Andrea, una panca con le catene, una gogna, una seduta per il bondage con i cuscini a croce per le braccia e divaricati a 45 gradi per le gambe, una struttura che sembra un'altalena ma da cui pendono bracciali e catene.
Lei cerca d'immaginare di quale avrebbe meno paura. Ma nello stesso tempo sente un altro fiotto di miele caldo percorrerle l'interno della vagina e sgocciolare giù fino a inumidire le morse che la stringono.
Anche gli occhi dei Dom sono fissi sugli attrezzi più che su di lei, per una volta. E l'asta diventa una lotta furibonda. Al vincitore servono 530 euro per avere il diritto di scelta. E quando lui gli chiede quale sarà l'attrezzo a cui lei sarà legata, lo sconosciuto non esita un istante: “La gogna”.
È lui a condurla verso l'angolo che era nascosto dal tendone. Sposta a fatica l'ordigno di legno pesante un po' più in centro. Ma il privilegio di legarla spetta al vincitore dell'asta. È ancora giovane. Capelli rasati, barba lunga, occhi fermi ma all'apparenza buoni. Sembra sorridere sotto quel cespuglio di peli mentre l'accompagna dolcemente vicino alla gogna. Poi all'improvviso la afferra per la nuca con una fermezza inattesa e spinge il collo nell'incavo centrale. Sistema i polsi, uno dopo l'altro e lei, docile, assapora la forte rudezza delle sue mani, trovandola eccitante. Infine l'uomo barbuto fa calare la chiusura e la assicura con il chiavistello in legno. Ora lei può solo guardare avanti, senza sapere che cosa stanno tramando alle sue spalle. E nemmeno sa se la mano che la sta esplorando in modo sfacciatamente curioso, scavando tra le piccole labbra e le natiche, sia quella del suo Dom o dello sconosciuto.
“Che dite della scelta del collega? Ora potrete scegliere un'altra cosa: lo strumento con cui punirla”
Lei rabbrividisce. Per la prima volta saranno mani altrui a donarle dolore e non le sue mani preferite. L'asta si scatena, letteralmente sulla sua pelle, perché lui usa la sua schiena piegata come un tavolino per appoggiare il foglio di carta con l'elenco delle “cose” in vendita. E non solo gli occhi ma qualche carezza furtiva dei Dom che la circondano la tengono al sommo dell'attesa e dell'eccitazione.
La regola di questa particolare asta è strana. La vincitrice, l'unica donna presente, ha conquistato il diritto di scelta con 380 euro. Ma aggiungendone 100 ha ottenuto un'altra facoltà, quella di decidere quanti colpi infliggerle. Ecco che cosa aveva in mente quando sibilava “non ho finito con te...”
La sua arma sarà un frustino da fantino, con la punta disegnata a forma di cuore. E quando lui le chiede se sceglie di pagare il sovrapprezzo, lei nemmeno inizia una trattativa: “La colpirò finché lei verrà” dice.
“Interessante” commenta lui. Altri brusii e versi di approvazione si levano dal gruppo dei Dom. E lei, di nuovo, aspetta e non sente abbastanza...
Il primo colpo è tra le cosce, tra ano e vagina. “Allarga le gambe, schiava” dice lei con un tono che non ammette discussioni. E lei, docile, obbedisce spostandole in un modo un po' goffo.
Il secondo colpo centra in pieno le piccole labbra, scuotendo la morsa delle due pinze che ancora la torturano. Sente le sue dita che spostano la catena per fare spazio. E il terzo colpo è diritto sul clitoride. Lei urla, non può farne a meno. Ma dopo la scossa di dolore c'è una torrida ondata di natura completamente diversa. E comincia a capire che cosa intendeva lei quando diceva “...finché lei verrà”.
“Sei fottutamente, schifosamente bagnata, schiava. Dovrai leccare per bene il frustino quando sarà finito, per rimediare allo stato in cui lo avrai ridotto”: lei sente la voce e immagina un viso severo, ma appagato. Poi sente le dita levare con uno strattone la prima morsa, poi l'altra. Ora sente anche le lacrime solcarle il viso e sbavare il suo trucco. E poi un colpo, un altro, un altro in sequenza sulle piccole labbra che formicolano dove il sangue riprende a circolare. E la scossa piacevole di prima che travalica quella di puro dolore. “Cosa mi sta accadendo, cosa mi sta accadendo...” pensa lei quando una voce maschile alle sue spalle si rivolge al suo uomo.
“Mentre la Domme gioca, noi possiamo approfittare in qualche modo delle grazie della schiava?”
“Dovete chiederlo alla Domme, è lei la regina di questo momento”.
Lei non esitò: “Certo, ma state attenti. Le farò ancora un po' male”
E così, mentre altri due colpi in rapida successione le torturano il clitoride, vede le gambe e i piedi di uno degli uomini avvicinarsi a lei. Vede anche il viso, quando con una mano la costringe a guardare in su: nota le sopracciglia nerissime, a circondare gli occhi dello stesso colore. La fronte è corrucciata, ma non rugosa, non è così vecchio. Ma l'aspetto è davvero spaventoso. Anche se sotto l'abito elegante sembra nascondersi un fisico curato.
“Ora vediamo come te la cavi nel donare piacere” dice l'uomo mentre, senza mollare la presa sui suoi capelli, si slaccia lentamente i pantaloni. Il cazzo che le porge è già duro. Lei apre docile la bocca e lo accoglie. E si rende conto che lo sconosciuto non ha nessuna pazienza, quello che vuole è scoparle la faccia. Nel frattempo i colpi continuano. E un cortocircuito fatto di dolore, umiliazione (“Sembri una brava succhiacazzi, schiava” sentenzia il tizio), voglia e desiderio si impossessa della pancia di lei. Ha smesso di contare i colpi quando, dopo uno atterrato perfettamente sul clitoride, comincia a mugolare tenendo in bocca quel cazzo turgido mai assaggiato prima. Lo sente vicino, incredibilmente vicino. Forse dovrebbe chiedere il permesso per venire. Ma la Domme aveva annunciato che quello era il suo volere. E lei stessa lo sa: “Sei quasi pronta, troietta? Non ti era mai successo di venire mentre vieni punita, vero?”.
No, non le era... (un colpo, un gemito) mai... (un colpo, un gemito più forte)... nemmeno passato (un colpo dritto sul clitoride, una scossa intensissima lungo la schiena)... per l'anticamera del cervel... ooooh... L'ultimo colpo libera il suo piacere. Si contorce e si contrae attorno alla gogna, le gambe si serrano come per tenere dentro tutto il calore che sta sprigionando. La bocca mugola come può con il cazzo che la riempie e che, proprio mentre gli altri Dom ridono divertiti alla sua reazione da schiavetta assetata, libera nella sua gola l'orgasmo vischioso e salmastro.
Quando il cazzo le concede di respirare e l'uomo davanti a lei abbandona la presa ai capelli, lei si lascia quasi cadere in avanti, spossata, mentre il suo “pubblico” applaude e una voce familiare le dice “brava, signorina”.
Lei sorride, le gocce di sperma che colano dalle labbra. E poi risente la voce di lui: “Bene signore e signori, adesso è il momento dell'offerta libera. Vi sarà sufficiente infilare 100 euro in questa scatolina per poter avere il vostro turno di divertimento con lei. Scopatela, schiaffeggiatela, sculacciatela, fatele succhiare il vostro cazzo. Divertitevi con la sua bellezza fino all'orgasmo, insomma...”
Da quel momento i ricordi si fanno più confusi. Quel che è certo è che lei smette di contare gli orgasmi suoi e altrui, smette di ricordarsi dei cazzi che l'hanno esplorata, penetrata, che si sono lasciati assaggiare. Smette di distinguere i lineamenti e i volti, i capelli e gli sguardi, i muscoli e i profumi. Smette di contare il tempo e di occupare spazio. Lei è solo puro piacere, per sé e per chi ha intorno. E soprattutto per lui. E mentre i cazzi dei Dom che l'hanno comprata continuano ad approfittare di lei, ecco un pensiero dolce mandare tutti gli altri in secondo piano: chissà come sarà bello, alla fine di tutto, sentire la sua voce dire che è orgoglioso di me...
La voce di lui è allegra, mentre la guarda fare la civettuola allo specchio con il vestito nuovo. Taglia impeccabile, come se fosse su misura, perché lui la conosce bene. A suo gusto, ma non estremo da essere sgradito a lei. E sexy, senza essere volgare.
Lei fa un'ultima giravolta allo specchio. La gonnellina taglio charleston anni Trenta si solleva e scopre l'orlo delle parigine, nere come il vestito e le scarpe con il tacco. E nere come la biancheria, di pizzo raffinato, con le trasparenze al punto giusto.
“Sei pronta?”
Lei fa sì con la testa e tiene gli occhi bassi. Se è quello che lui desidera – pensa – che accada. Ma è anche quello che lei desidera. E poi dopo quel bellissimo regalo, non potrebbe mai dirgli di no.
Lui si avvicina con l'ultimo accessorio rimasto avviluppato nell'attaccapanni, un foulard di raso nero. La guarda in viso con un sorriso carico di sottintesi, con un dito sfiora la guancia colorata di cipria, con gli occhi controlla che il trucco sia impeccabile, il rossetto abbastanza marcato da potersi notare da lontano, gli occhi resi grandi e profondi dalla matita.
Poi scivola alle sue spalle, le accarezza la pelle appena sotto la nuca e lei sospira all'improvviso, scossa da un piccolo brivido. Infine il foulard diventa una benda, legata saldamente in modo da coprire i suoi occhi. Da adesso guiderà lui.
“Stai bene?”
“Sì”
“Se hai ripensamenti dovrai dirmelo ora. Quando saremo di là non ci sarà via d'uscita. Anche se un tuo ripensamento porterebbe a una severa punizione”
“No, Signore. Nessun ripensamento”
“Mani dietro la schiena, allora. E andiamo. Ci aspettano”
Lui la prende per un braccio. Una stretta forte, decisa, severa. Eppure dolce. I passi risuonano sul parquet: i tacchi di lei, acuti e leggeri, le scarpe eleganti di lui, con un suono più basso e forte. Lui la ferma. Si sente lo scatto di una porta. Ancora passi, un brusio di sottofondo. Un gradino. Un altro.
“Buonasera signore e signori. E benvenuti a questo appuntamento originale con la bellezza”
La voce di lui, forte e decisa. Nemmeno un'esitazione. Quelle sono tutte a fare pressione sul cuore di lei, che batte così forte che sembra voler uscire dal vestito anni Trenta. Lei sa che cosa sta per succedere, anche se ha gli occhi bendati. Lui le ha spiegato tutto. E lei si è accorta di desiderarlo. Oggi lo renderà fiero, gli mostrerà la sua gratitudine. E sarà coraggiosa. E forse bagnata. O forse bagnata lo è già.
“Siete persone raffinate e di buon gusto” continua la voce di lui. “Sapete come mettervi in relazione al bello. Ma questa volta il bello è in carne ed ossa. E per poterlo contemplare da vicino, assorbire, toccare, usare, dovrete essere disposti a pagare”.
Lei ascolta i mormorii che arrivano da lontano, ma non percepisce le parole. Commenti su di lei, immagina. E darebbe un giorno di vita per ascoltarli.
“Naturalmente” prosegue lui a interrompere il brusio che era salito di tono “prima potrete farmi le domande che ritenete opportuno. E avvicinarvi per controllare da vicino al cospetto di quale bellezza avete avuto la fortuna di avvicinarvi”.
Bagnata. Questa volta lei avverte la sensazione quasi fisica di eccitazione provocata dalle sue parole che la magnificano. Così severo e dolce, così esigente e comprensivo. Avrebbe fatto di tutto per lui.
“È mai stata dominata da una donna?” chiede una voce femminile.
“No” risponde lui. “Ma è una sua curiosità. E sono certo che si comporterà in modo da rendermi fiero”. La mano di lui a strizzare il culo di lei: “Non è vero, signorina?”
Lei annuisce, senza parlare. E il contatto con quella mano moltiplica il suo desiderio.
“Pratica il pissing?” chiede una voce maschile.
“Con un sovrapprezzo” scherza lui. La sala ride. Lei sente un brivido lungo la schiena. Non lo ha mai fatto. Non lo trova eccitante per nulla. Ma deve compiacere lui. Non può deluderlo. Può solo sperare che qualcuno offra di più e abbia altri gusti.
“È abbastanza flessibile da sopportare di essere legata?”
“Adora la costrizione” dice lui. “Potrà metterla alla prova. Ma perché non vi avvicinate a guardarla da vicino? Sembrate più timidi di quanto mi aspettassi...”
Lei sente rumori di seggiole che scivolano sul pavimento. Poi passi. Poi la sensazione di occhi su di lei. Vicini. Sempre più vicini.
“Potete toccare” sentenzia lui.
Una prima mano curiosa le sfiora la guancia, poi scende lungo il collo, quasi cingendolo come un secondo collare, oltre a quello di seta nera con il ciondolino ad anello che lui le ha donato. Una seconda mano punta al sodo: sente la gonnellina sollevarsi, il palmo afferrare una natica. Un'altra mano fa lo stesso davanti, sfiora la pancia, scende. “Depilata, bene...” dice una voce sconosciuta. “E bagnata” aggiunge un'altra voce.
“Sei proprio una porcellina impaziente” dice lui. “Ma questo mi fa intuire che forse possiamo cominciare. Sollevati la gonna, signorina”
Lei obbedisce, mentre le mani sconosciute si scansano.
“Il primo dettaglio in vendita sono le mutandine di pizzo nero della mia signorina, già fradicie dei suoi umori. Voi non potete ancora saperlo, ma lei si bagna con grande facilità. E con grande abbondanza. E sono certo che tra voi c'è qualche cultore del genere”.
“Venti” dice una voce.
“Venti euro? Davvero? Questa è un'offesa. Pensate che la mia signorina valga così poco?”
“Cinquanta” quasi urla la voce femminile, come a correggere l'offerta precedente.
“Settanta” dice un'altra voce.
“Cento”. Ancora la donna.
“Non ringrazi?” interviene lui. E lei, con un filo di voce: “Grazie”.
Una sculacciata forte e improvvisa le strappa un piccolo grido di spavento e dolore. “Grazie che cosa? Non ti ho forse insegnato le buone maniere?”
“Grazie... signori... e signore”
“Prego”. Dice una voce. “E centoventi”.
“Ora ci avviciniamo a una cifra rispettosa di tanta bellezza. Centoventi è l'offerta più alta... nessuno rilancia?”
“Centotrenta” ribadisce la donna. Ci tiene. Lei ne è lusingata. E sente ancora qualche goccia di nettare umettare il pizzo nero.
“Centoquaranta” dice deciso l'uomo senza volto.
“Oh si combatte... Centoquaranta e uno... centoquaranta e due...”
“Centocinquanta!” sbotta quasi stizzita la donna.
“Basta così” sbuffa l'uomo.
“Abbiamo un vincitore” dice lui con voce allegra. “Le mutandine bagnate della signorina andranno alla Miss in terza fila. Prego, venga a ritirare la sua conquista. Preferisce sfilarle lei o lasciare che se le sfili la signorina e che poi gliele porga?”
“Faccio io” dice lei, mentre il rumore di passi lascia intuire che si stia avvicinando.
Lei sente le mani sui fianchi, le dita scivolare sotto il bordo delle mutandine. E poi sfilarle via quasi di fretta.
“È bagnata come una puttanella. Restano appiccicate alla vagina” sentenzia la vincitrice, liberando il trofeo dalla prigione delle gambe. E liberando lei da ogni residuo pudore.
Poi un timido applauso. Probabilmente le sta mostrando agli altri concorrenti. E un soffio di voce accanto al suo orecchio: “Non abbiamo ancora finito io e te, puttanella”.
“E ora” dice la voce di lui, interrompendo di nuovo il brusio, “credo che metteremo in vendita il diritto per uno di voi di scegliere come volete che la signorina sia vestita da qui alla fine della serata. Vestita o svestita, naturalmente. Intanto tu, lascia pure cadere quella gonnellina. Ormai hanno capito come sei fatta. E soprattutto hanno capito che sei bagnata e pronta...”
“Cento” dice una voce convinta. Sembra del tizio che rivaleggiava con la Mistress per le mutandine.
“Centoventi” rilancia un altro.
“Duecento” dice con rabbia il tizio di prima.
La sala rumoreggia. Una voce mai sentita azzarda: “Duecentodieci”
“Duecentocinquanta”. Ancora lo sconosciuto appena sconfitto. Sembra che ora non voglia sentire ragioni.
Silenzio. “Nessun'altra offerta?” dice lui.
“Duecentosessanta” replica una voce tenue dal fondo.
“Trecento, cazzo. Trecento”. Lei lo immagina guardare come un cowboy gli altri concorrenti, come se gli occhi fossero pistole che li tengono sotto tiro. E guai se qualcuno apre la bocca.
“Trecento e uno... trecento e due... trecento e tre. Aggiudicato al signore. Congratulazioni”. Altro applauso. “Preferisce dire alla signorina che cosa deve indossare o levarsi o ci pensa lei con le sue mani?”
“Voglio vederla mentre si spoglia. E concederò la visione ai colleghi presenti”.
“Bene, da che cosa cominciamo?”
“Lei sarà nuda. Terrà solo le calze autoreggenti e le scarpe con il tacco”.
“Su signorina, hai sentito il generoso Master? Ha speso un sacco di soldini per te. Fallo contento”
Lei non dice una parola e comincia piano ad armeggiare intorno al vestitino. Ne afferra i lembi inferiori, lo solleva sopra la testa, lo lascia cadere sul pavimento. Poi giocherella con le spalline del reggiseno, abbassando prima una e poi l'altra. Infine il gancetto. E il reggiseno va a fare compagnia al vestitino.
“Signore, la benda?” chiede lei.
“Domandiamo al compratore” dice lui.
“Via, via...” sentenzia lo sconosciuto, un po' di fretta.
Tocca a lui snodarla. Lei, con le braccia dietro la schiena, aspetta. Accoglie il fiotto di luce a occhi socchiusi. Poi mette a fuoco. È seminuda, in piedi, davanti a una dozzina di Dom e a una Domme, ansiosi di comprarla. Vorrebbe fissarli, dare un volto a ogni voce udita. Ma non può guardarli fissi in viso senza apparire troppo sfacciata. È così spaventoso. E così eccitante...
“La prossima asta riguarda queste” dice lui, mostrando al mondo due catene, ognuna con due pinze metalliche alle estremità.
“Cinquanta” dice la prima voce convinta. Ora lei può vederli in viso. E può vedere il lampo di eccitazione quando immaginano quello che potranno farle: capelli bianchi ordinatissimi, un po' oltre la mezza età, una specie di Sean Connery mediterraneo con una barba solo apparentemente incolta e due occhi neri che trafiggono i muri.
“Settanta” replica la seconda voce. Appartiene a un uomo molto più giovane: i tatuaggi che ornano il collo sbucano dal colletto dello smoking, a creare un curioso contrasto. Sembra muscolosissimo. E fortissimo. Da averne paura.
“Settantacinque” rilancia la donna. Bionda, capelli raccolti in uno chignon. Occhi chiari color del ghiaccio. Mani sottili ornate da anelli. Eppure forse è colei che teme di più.
Lei li divora con gli occhi. Li desidera tutti. O meglio desidera il loro desiderio. E sa che attraverso questo gioco renderà lui felice e orgoglioso. È la tempesta perfetta.
L'asta arriva a centottanta. Un tizio magro e pallido dalla faccia timida si alza dalla sedia: è alto, sembra un ingegnere nucleare che non esce dal suo laboratorio nemmeno per prendere una boccata d'aria. Ma per una volta l'oggetto del suo esperimento è lei.
“Signorina, ti sei chiesta perché ci sono due paia di pinze con la catena?”
Lei fa no con la testa ma immagina.
Il tizio arriva, prende la prima catenella, senza nemmeno guardarla in viso afferra un capezzolo, lo strizza strappandole un urletto di dolore, aggancia la morsa di metallo. Lei sente pungere e tirare, si morde il labbro e quasi lascia il segno quando l'operazione viene ripetuta sul secondo capezzolo. Il tizio tira un po' la catena, per saggiare quanto salda sia la presa. Lo è, e lei sospira il suo disagio, meritandosi uno sguardo di ammonimento di lui. Allora abbassa gli occhi, mentre il tizio con la seconda catenella tra le dita si china tra le sue cosce. “Allarga le gambe” ordina. E lei lentamente le divarica. Era proprio come pensava. E temeva. Le dita del tizio percorrono la linea della sua vagina. Lei arrossisce. Sa di essere bagnata. Il tizio si asciuga sulla pelle della sua pancia e riprova. Ma lì tra le piccole e le grandi labbra è tutto scivoloso. Allora si alza in piedi di scatto e con la mano bagnata del suo nettare, la colpisce con un ceffone alla guancia: “Troietta, sei insopportabilmente eccitata. Pensi di venire prima ancora che ti tocchiamo?”.
L'umiliazione più profonda. Da uno sconosciuto ingegnere nerd. L'apoteosi del contrasto. E una lacrima che, irrimediabilmente, le solca la guancia.
Lui interviene, stringendogli il polso con mano ferma: “Ehi, niente schiaffi. Non senza il permesso esplicito mio. Non è quello che mi aspetto da un vero Dom”. Lui bisbiglia un “non succederà più” e torna a chinarsi tra le cosce di lei. Lei sente le dita afferrare strette le grandi labbra e poi il pizzicotto implacabile della morsa che ne stringe una. La cosa si ripete con l'altra e come con i seni, il tizio magro si toglie lo sfizio di dare un paio di strattoni: “Sei bagnata ma non abbastanza per non reggerli addosso. Bene”. Poi, come da patti, si allontana.
“La prossima offerta, signore e signori, consentirà al vincitore di scegliere in quale posizione costringere la signorina perché sia a disposizione del vostro volere”. Lui parla e nel frattempo si sposta verso un tendone bordeaux. Lo scosta di lato e in un angolo della stanza compaiono gli attrezzi: una croce di Sant'Andrea, una panca con le catene, una gogna, una seduta per il bondage con i cuscini a croce per le braccia e divaricati a 45 gradi per le gambe, una struttura che sembra un'altalena ma da cui pendono bracciali e catene.
Lei cerca d'immaginare di quale avrebbe meno paura. Ma nello stesso tempo sente un altro fiotto di miele caldo percorrerle l'interno della vagina e sgocciolare giù fino a inumidire le morse che la stringono.
Anche gli occhi dei Dom sono fissi sugli attrezzi più che su di lei, per una volta. E l'asta diventa una lotta furibonda. Al vincitore servono 530 euro per avere il diritto di scelta. E quando lui gli chiede quale sarà l'attrezzo a cui lei sarà legata, lo sconosciuto non esita un istante: “La gogna”.
È lui a condurla verso l'angolo che era nascosto dal tendone. Sposta a fatica l'ordigno di legno pesante un po' più in centro. Ma il privilegio di legarla spetta al vincitore dell'asta. È ancora giovane. Capelli rasati, barba lunga, occhi fermi ma all'apparenza buoni. Sembra sorridere sotto quel cespuglio di peli mentre l'accompagna dolcemente vicino alla gogna. Poi all'improvviso la afferra per la nuca con una fermezza inattesa e spinge il collo nell'incavo centrale. Sistema i polsi, uno dopo l'altro e lei, docile, assapora la forte rudezza delle sue mani, trovandola eccitante. Infine l'uomo barbuto fa calare la chiusura e la assicura con il chiavistello in legno. Ora lei può solo guardare avanti, senza sapere che cosa stanno tramando alle sue spalle. E nemmeno sa se la mano che la sta esplorando in modo sfacciatamente curioso, scavando tra le piccole labbra e le natiche, sia quella del suo Dom o dello sconosciuto.
“Che dite della scelta del collega? Ora potrete scegliere un'altra cosa: lo strumento con cui punirla”
Lei rabbrividisce. Per la prima volta saranno mani altrui a donarle dolore e non le sue mani preferite. L'asta si scatena, letteralmente sulla sua pelle, perché lui usa la sua schiena piegata come un tavolino per appoggiare il foglio di carta con l'elenco delle “cose” in vendita. E non solo gli occhi ma qualche carezza furtiva dei Dom che la circondano la tengono al sommo dell'attesa e dell'eccitazione.
La regola di questa particolare asta è strana. La vincitrice, l'unica donna presente, ha conquistato il diritto di scelta con 380 euro. Ma aggiungendone 100 ha ottenuto un'altra facoltà, quella di decidere quanti colpi infliggerle. Ecco che cosa aveva in mente quando sibilava “non ho finito con te...”
La sua arma sarà un frustino da fantino, con la punta disegnata a forma di cuore. E quando lui le chiede se sceglie di pagare il sovrapprezzo, lei nemmeno inizia una trattativa: “La colpirò finché lei verrà” dice.
“Interessante” commenta lui. Altri brusii e versi di approvazione si levano dal gruppo dei Dom. E lei, di nuovo, aspetta e non sente abbastanza...
Il primo colpo è tra le cosce, tra ano e vagina. “Allarga le gambe, schiava” dice lei con un tono che non ammette discussioni. E lei, docile, obbedisce spostandole in un modo un po' goffo.
Il secondo colpo centra in pieno le piccole labbra, scuotendo la morsa delle due pinze che ancora la torturano. Sente le sue dita che spostano la catena per fare spazio. E il terzo colpo è diritto sul clitoride. Lei urla, non può farne a meno. Ma dopo la scossa di dolore c'è una torrida ondata di natura completamente diversa. E comincia a capire che cosa intendeva lei quando diceva “...finché lei verrà”.
“Sei fottutamente, schifosamente bagnata, schiava. Dovrai leccare per bene il frustino quando sarà finito, per rimediare allo stato in cui lo avrai ridotto”: lei sente la voce e immagina un viso severo, ma appagato. Poi sente le dita levare con uno strattone la prima morsa, poi l'altra. Ora sente anche le lacrime solcarle il viso e sbavare il suo trucco. E poi un colpo, un altro, un altro in sequenza sulle piccole labbra che formicolano dove il sangue riprende a circolare. E la scossa piacevole di prima che travalica quella di puro dolore. “Cosa mi sta accadendo, cosa mi sta accadendo...” pensa lei quando una voce maschile alle sue spalle si rivolge al suo uomo.
“Mentre la Domme gioca, noi possiamo approfittare in qualche modo delle grazie della schiava?”
“Dovete chiederlo alla Domme, è lei la regina di questo momento”.
Lei non esitò: “Certo, ma state attenti. Le farò ancora un po' male”
E così, mentre altri due colpi in rapida successione le torturano il clitoride, vede le gambe e i piedi di uno degli uomini avvicinarsi a lei. Vede anche il viso, quando con una mano la costringe a guardare in su: nota le sopracciglia nerissime, a circondare gli occhi dello stesso colore. La fronte è corrucciata, ma non rugosa, non è così vecchio. Ma l'aspetto è davvero spaventoso. Anche se sotto l'abito elegante sembra nascondersi un fisico curato.
“Ora vediamo come te la cavi nel donare piacere” dice l'uomo mentre, senza mollare la presa sui suoi capelli, si slaccia lentamente i pantaloni. Il cazzo che le porge è già duro. Lei apre docile la bocca e lo accoglie. E si rende conto che lo sconosciuto non ha nessuna pazienza, quello che vuole è scoparle la faccia. Nel frattempo i colpi continuano. E un cortocircuito fatto di dolore, umiliazione (“Sembri una brava succhiacazzi, schiava” sentenzia il tizio), voglia e desiderio si impossessa della pancia di lei. Ha smesso di contare i colpi quando, dopo uno atterrato perfettamente sul clitoride, comincia a mugolare tenendo in bocca quel cazzo turgido mai assaggiato prima. Lo sente vicino, incredibilmente vicino. Forse dovrebbe chiedere il permesso per venire. Ma la Domme aveva annunciato che quello era il suo volere. E lei stessa lo sa: “Sei quasi pronta, troietta? Non ti era mai successo di venire mentre vieni punita, vero?”.
No, non le era... (un colpo, un gemito) mai... (un colpo, un gemito più forte)... nemmeno passato (un colpo dritto sul clitoride, una scossa intensissima lungo la schiena)... per l'anticamera del cervel... ooooh... L'ultimo colpo libera il suo piacere. Si contorce e si contrae attorno alla gogna, le gambe si serrano come per tenere dentro tutto il calore che sta sprigionando. La bocca mugola come può con il cazzo che la riempie e che, proprio mentre gli altri Dom ridono divertiti alla sua reazione da schiavetta assetata, libera nella sua gola l'orgasmo vischioso e salmastro.
Quando il cazzo le concede di respirare e l'uomo davanti a lei abbandona la presa ai capelli, lei si lascia quasi cadere in avanti, spossata, mentre il suo “pubblico” applaude e una voce familiare le dice “brava, signorina”.
Lei sorride, le gocce di sperma che colano dalle labbra. E poi risente la voce di lui: “Bene signore e signori, adesso è il momento dell'offerta libera. Vi sarà sufficiente infilare 100 euro in questa scatolina per poter avere il vostro turno di divertimento con lei. Scopatela, schiaffeggiatela, sculacciatela, fatele succhiare il vostro cazzo. Divertitevi con la sua bellezza fino all'orgasmo, insomma...”
Da quel momento i ricordi si fanno più confusi. Quel che è certo è che lei smette di contare gli orgasmi suoi e altrui, smette di ricordarsi dei cazzi che l'hanno esplorata, penetrata, che si sono lasciati assaggiare. Smette di distinguere i lineamenti e i volti, i capelli e gli sguardi, i muscoli e i profumi. Smette di contare il tempo e di occupare spazio. Lei è solo puro piacere, per sé e per chi ha intorno. E soprattutto per lui. E mentre i cazzi dei Dom che l'hanno comprata continuano ad approfittare di lei, ecco un pensiero dolce mandare tutti gli altri in secondo piano: chissà come sarà bello, alla fine di tutto, sentire la sua voce dire che è orgoglioso di me...
DON'T STAND SO COLOSE TO ME
L'insonnia di Matteo, nelle vacanze di Natale, peggiorava. Niente levatacce per andare a scuola, dove vestiva i panni del professor Giugni, insegnante di filosofia al liceo Alda Merini. Il prof migliore, secondo i ragazzi, che organizzavano petizioni pur di farsi accompagnare da lui alle gite scolastiche. Per lui non era un problema: divorziato, non aveva nessuno che sentisse la sua mancanza durante i giorni in cui era sui sedili dietro del bus a duettare con gli ex allievi insegnando loro le vecchie canzoni di Battiato. Con la nuova vita solitaria poi aveva riscoperto la notte: appassionato delle ore buie e silenziose, amava usarle per leggere e scrivere e a volte per esplorare mondi oscuri.
Il mondo oscuro di quella sera era una chat anonima. Parole chiave selezionate “schiava”, “padrone”, “dominazione”, “sottomissione”, per cercare persone con i suoi stessi interessi, quelli che aveva maturato in anni di letture, da De Sade a Histoire d'O. E più di recente in un pochino di pratica, frequentando club, incontri, siti web specializzati.
È sbagliato dire che cercasse persone. Cercava ragazze. O donne. Ma le chat anonime sono cosa da giovani. Così quella con cui stava chiacchierando diceva di avere diciotto anni. Impossibile sapere se fosse vero.
“Faccio l'ultimo anno del liceo classico” gli scrisse.
“Che coincidenza...” rispose lui pensando alla sua scuola, non senza un brivido per quelle due o tre studentesse che avrebbe visto volentieri legate nude a una croce di sant'andrea.
“Perché?”
“Anch'io tanti anni fa ho fatto l'ultimo anno del liceo classico” scherzò, prima di levarsi qualche anno dall'anagrafe, restando peraltro in un'età in cui di una diciottenne avrebbe potuto essere il padre.
Finirono per parlare di scuola e non solo delle sue pulsioni alla sottomissione, al modo così schietto in cui lei viveva e raccontava la sua vita sessuale, al desiderio di sperimentare e provare maturato leggendo e guardando, proprio come era successo a lui.
“Mi darai consigli?” gli chiese.
“Volentieri. Ti lascerai consigliare?” rispose lui.
“Sì..” con due puntini soltanto. Matteo imparò presto che per lei era come una firma.
-+-+-
“Sono anche esibizionista, sai? O almeno credo”
Era la terza notte di fila che passavano a chiacchierare. La chat anonima era diventata un flusso quasi continuo di parole su Telegram. L'insonnia di Matteo era anche quella di Sofia, e chissà se era davvero il suo nome. E se viveva davvero in quella città lontana ma non troppo. Sulla foto profilo aveva un gatto. Lui un primo piano della guancia barbuta.
“Somigli al mio prof preferito” disse. Ma non ci diede peso. Né fece altre domande. Avevano troppo di cui parlare. Piccoli giochi a cui giocare. Passi da compiere insieme.
“Lo so che la differenza tra noi è pesante, specie per l'età. Non potresti farmi un pompino al parco come hai fatto al tuo ex. E non perché io non ne abbia voglia. O perché non potrebbe piacere anche a te. Ma perché se entrassimo insieme in un parco sembreremmo padre e figlia. E non potrei fare quello che vorrei”
“Che cosa, Matte?”
“Afferrarti i polsi, tenerli insieme dietro la schiena stringendoli in una sola mano. Farti immaginare come sarebbe essere legata”.
“Mhhh” scrisse lei.
“Prima o poi dovremmo sentire le nostre voci” rispose lui.”
“O i nostri gemiti”
“O i nostri gemiti. È qualcosa che hai già provato?”
“È qualcosa che adoro. I suoni sono importanti per me. E poi ho capito di più della mia sottomissione anche dalla mia pulsione nel dare piacere, mi viene più facile che riceverne”.
“Cambierà. Io non ti lascerei mai in pace finché non sei stata tu a provare piacere”
“E come faresti?”
Glielo spiegò. Di nuovo. A lungo. Seduto in boxer e maglietta a gambe incrociate sul pavimento di legno della camera da letto. Il cazzo che, a ogni parola digitata, reclamava attenzioni e carezze.
-+-+-
La prima foto arrivò la sera dopo. Era la penultima sera prima della fine delle vacanze di Natale. Era nuda, la pelle candida, i seni liberi, i capezzoli grandi e rosa, eretti per il fresco della notte o forse per l'eccitazione. Le cosce strette a svolgere il compito di ultima, labile barriera di pudore. I fianchi deliziosamente segnati da due curve morbide.
“Hai freddo?” chiese lui.
“Tutt'altro” rispose lei. “Ho messo il termosifone al massimo”.
“È l'unica ragione per cui hai caldo?”
“No” confessò lei.
Poco dopo lui rispose con il suo primo messaggio vocale: “Troverai due sciarpe o due cinture, bimba. Le userai per legarti le gambe in una frogtie. Ricordi quella foto che ti ho mostrato su internet? Ecco, così... Poi allargherai le tue cosce, e lo farai per me. E la tua mano sarà la mia mano”
“Mhhh..” rispose lei, con due puntini e basta.
Lo prese come un incoraggiamento. E continuò a impartirle ordini e a carezzarle la fantasia con la voce.
“Matte..” le scrisse a un certo punto.
“Bimba..” rispose lui, imitando i suoi due puntini.
“Posso chiamarti?”
“Fallo”.
L'auricolare portò direttamente nelle sue orecchie i gemiti di lei, mentre la sua voce dettava il ritmo, spiegava quanto forte e quanto veloce doveva penetrarsi, con quanta cura passare i polpastrelli bagnati sul suo clitoride, con quanta devozione doveva eseguire e basta, mentre le sue gambe legate le ricordavano che la costrizione e la sottomissione era quello che desiderava.
Quando l'onda dell'orgasmo gli travolse l'udito e il cervello, lei si stava toccando ormai da lunghi minuti. “Ho squirtato” confessò dopo un sospiro. E poi confessò ancora: “Matte.. io non riesco mai a venire con qualcuno.. sei.. la mia prima volta..”
Matteo il prof guardò il suo cazzo, che aveva liberato da tempo dalla morsa dei boxer. La prima volta... la prima volta... Dio, come avrebbe voluto esserlo davvero. La prima volta delle corde, dei nodi, delle sculacciate, del dolore che diventa piacere. Ci sarebbe mai riuscito? Avrebbe travolto le barriere di distanza, di età, di opportunità?
-+-+-
Fu insonne anche l'ultima notte di vacanza.
“Poi sarà più difficile” disse lei.
“Anche per me” rispose lui.
“Non mi hai mai detto che lavoro fai”
“Il formatore. Nel senso che formo te nel tuo cammino verso la sottomissione”
“Scemo”
Erano le tre e dieci del mattino quando riattaccarono il telefono.
Chiacchiere, momenti sexy, gemiti, l'orgasmo di lei, quello di lui, i fazzolettini ad asciugarsi la pancia, la chiamata che diventa videochiamata per mostrare nella penombra gli effetti del rispettivo piacere. Lui che mostrò il suo corpo nudo. Lei che indugiò anche sui suoi occhi. Azzurri. Profondi. E poi giù verso la bocca, il mento, il collo, il corpo.
Tra il collo e la spalla un tatuaggio. Fece finta di non notarlo troppo.
“A nanna ora, domani hai scuola”
“Ciao 'more..”
“Ciao bimba. Attenta alle parole. Hanno un peso”
“Perché?”
“Te lo spiegherò. Una lezione apposta”
“Ma così mi spaventi..”
“Buonanotte bimba”
“Uff. Buonanotte”
-+-+-
In terza C doveva andarci in terza ora, subito dopo l'intervallo.
Aveva un groppo d'ansia alla bocca dello stomaco. E c'era un solo modo per scioglierlo: conoscere la verità. Si avviò all'inizio dell'intervallo vicino alla porta della classe. Cercò volti e sguardi. Salutò a cenni i ragazzi che rispondevano con un sorriso, felici di vederlo.
Il gruppetto di Esposito Giulia e delle sue due amiche si fermò a chiacchierare. Ma lui guardava solo Giulia. Ben annodata al collo portava una sciarpa, proprio là dove avrebbe voluto sbirciare.
“Bella sciarpa, Giulia. Ne avrei giusto bisogno. Senti che voce...”
“Ma no prof” trillò Marta, la sua migliore amica. “Lo sa che andiamo pazzi per la sua voce”
“Dici che ho un futuro come doppiatore? O come call center sexy?”. Lo disse guardando Giulia. E se ne pentì. Ma non poteva togliersi dalla testa quel chiodo fisso.
Le ragazze risero. Anche Giulia.
“Hai la faccia stanca” incalzò lui. “Non dovresti fare tardi i giorni prima di scuola”.
“Non ho fatto tardi” rispose Giulia, mettendo su il broncio.
“Dai, non dovrei dirtelo ma sei pallida e hai le occhiaie. Sarai andata a dormire almeno... lasciami fare due conti guardando le occhiaie... diciamo alle tre, tre e dieci”
Le ragazze risero. Giulia arrossì. Quella cazzo di sciarpa...
“Prof, ci controlla?”
“Ma no, controllo solo lei. Almeno fino alle tre, tre e dieci”.
Le ragazze risero di più. Giulia diventò quasi viola.
“Ragazze, io scherzo eh? Ma non sulla sciarpa. Me la presti o no?”
“No, prof. E poi devo andare in bagno”.
-+-+-
La sciarpa se la levò durante la lezione. Il professor Giugni dovette smettere di passeggiare per la classe e appoggiarsi alla cattedra quando vide quel tatuaggio.
Proprio.
Quel.
Tatuaggio.
Doveva essere una lezione su Hegel. Finì per essere un monologo a tema, sul cuore e sulla ragione, tra Pascal e Sant'Agostino, o forse tra Fabio Volo e il Piccolo Principe. La ragione – disse – deve essere la guida principale delle nostre azioni. Ma ci sono ambiti in cui agire secondo i dettami della razionalità è sbagliato. Esistono strade assurde da percorrere, ma che portano dopo ripide salite e percorsi scoscesi a panorami magnifici. Razionalmente nessun uomo avrebbe scalato montagne a quaranta gradi sottozero. O sarebbe salito su una navicella spaziale costruita per atterrare sulla Luna. O sarebbe sceso da quella navicella per camminare sulla superficie della Luna. “Lo sentite l'eco dei dubbi e delle domande?” disse. “Fatevele anche voi: e se la navicella non ripartisse? E se restassi per sempre accanto a questo cratere? O meglio finché ho ossigeno da respirare per poi morire asfissiato tra sofferenze atroci? E se la tempesta mi sorprendesse mentre scalo l'Everest e non trovassi né la vetta né la via per ridiscendere? E se... e se... E se l'uomo non avesse mai osato superare i limiti scegliendo il cuore, quanti passi in meno avremmo compiuto? Non solo quelli sulla superficie della Luna...”
La classe taceva, come non mai. Il professor Giugni restava appoggiato con i lombi alla cattedra, cercando gli sguardi di ognuno spaziando di banco in banco. E poi cercando lo sguardo di Giulia. Che però si abbassava quando toccava a lei. Aveva capito, ovvio.
“Quando parlate di amore” disse, guardandola invano “lasciate che sia il vostro cuore a dirlo. Usate la parola non come un intercalare, una virgola, un'esclamazione a caso. Usatela se ve la sta dettando il cuore. E provate la vertigine di abbandonarvi ad essa. La paura di essere respinti, quella stessa paura di chi era sulla Luna e non sapeva se sarebbe tornato a casa. Ma la paura che viene zittita dal cuore, dal desiderio, dalla spinta incontrovertibile a evolversi, progredire, sperimentare”.
Suonò il campanello. Ma non ci fu stridere di sedie sui pavimenti. La classe e il prof stettero in silenzio finché non smise di trillare. E poi per qualche secondo ancora. “Ragazzi, è stata una lezione strana, scusate. Non sarà materia di interrogazione. Ma spero che sarà materia per le vostre vite”. Poi prese la borsa e uscì dando le spalle a tutti. Soprattutto a Giulia.
-+-+-
Telegram tacque quella sera. E quella dopo. E quella dopo ancora.
Matteo non ci entrava. O meglio, controllava duecento volte al giorno le notifiche. Ma tra quelle di Instagram, di Facebook, di Whatsapp, le email che lo avvertivano di aggiornamenti sul sito dedicato al bdsm su cui aveva un profilo, non c'era mai la risposta alla sua domanda. E a scuola l'argomento non era più stato nemmeno sfiorato. Semplicemente, si evitavano nei corridoi e quando in classe evitarsi del tutto era impossibile, lui era strettamente professionale e lei fredda e distaccata come un'allieva qualsiasi non particolarmente interessata alla filosofia.
Capitava che Matteo guardasse le foto, che Telegram conservava nella memoria della chat. Non avrebbe dovuto. Non più. Ogni foto era una minaccia intrinseca alla sua carriera e alla sua reputazione. Ma non era quello il punto. La verità è che Matteo stava bene con lei. Si sentiva importante. Amava quelle conversazioni in cui la differenza di età si annullava nella curiosità reciproca, e nell'intelligenza indiscussa. E amava il modo in cui si passava da argomenti seri a confidenze intime, fino all'impulso di desiderarsi e di giocare e di immaginare. Ma era il passato. E sarebbe stato meglio se non fosse tornato a essere il presente. Così diceva la sua ragione. Smentendo i sussulti che sentiva il suo cuore, ovviamente.
-+-+-
“Matte..”
Il messaggio arrivò molte sere dopo. La notifica bastò a fargli accelerare i battiti. Ma respirò profondo e si calmò prima di rispondere. Si prese anche mentalmente in giro: la stava facendo aspettare come le peggio belle fighe, mentre in realtà non attendeva che quel messaggio, da giorni.
“Bimba..” le scrisse, con due puntini e basta come se fosse un codice solo loro.
“Ciao..”
“Come stai?”
“Dovresti saperlo”
“Non sono cose di cui si parla a lezione, bimba..”
“Sto bene. Frastornata. Ancora un po' incazzata. Ma sto bene”
“Hai capito subito, quando te l'ho fatto capire io?”
“Voglio sapere quando lo hai capito tu”
“Quella mattina a scuola, vedendoti arrossire. Avevo visto il tatuaggio la sera prima in videochat, ma non ci avevo quasi fatto caso. Poi ripensandoci dopo... Ma tu quel giorno tenevi la sciarpa e non te la volevi levare”.
“Non lo sapevi prima? Giuralo..”
“Io non ero un insegnante e tu non eri della mia città. Non potevo immaginare una simile coincidenza. E non ti avevo riconosciuta. Non ti avevo mai vista... così...”
“Matte..”
“Bimba..”
“Mi manchi”
“Bimba, non dovremmo neanche iniziare questa conversazione”
“Forse è un po' tardi per tornare indietro. Sai cose di me che non oso ripetermi neppure da sola”
“E tu di me, bimba. Potresti mandarmi in rovina in dieci secondi”
“Non lo farei mai”
“Lo so”
“Perché?”
“Perché hai un'anima grande”
“Matte..”
“Bimba..”
“Guidami ancora”
“Riusciresti ancora ad avere a che fare con me a scuola?”
“Non lo so”
“Nemmeno io. Ma mi manchi anche tu”
“È assurdo”
“Lo era dall'inizio. Continueremmo a non essere presentabili se camminassimo mano nella mano al parco”
“Matte, non sono una da effusioni zucchero e miele”
“Dicevo per fare un esempio. Ma anche incontrarci, prenotare una stanza d'albergo. Padre e figlia in vacanza insieme? Ma con le manette e i plug nel borsone?”
“Matte..”
“Bimba..”
“Come dicevi tu della ragione e del cuore quella mattina a lezione?”
“Mi ricordo. Che cosa dice il tuo cuore?”
“Che non voglio perderti. Come prof e come... non so, cosa cazzo siamo noi due?”
“Qualcosa di strano”
“Allora come qualcosa di strano”
“Sai tenere i segreti?”
“Sì”
“Anche io. Allora nessuno saprà mai di noi. E tu troverai Matte la guida qui, quando vorrai”
“Matte..”
“Bimba..”
“Grazie”
-+-+-
Non poteva essere tutto come prima. Matteo lo sapeva, se lo aspettava. E forse era giusto così.
La guidò, dissipò i suoi dubbi, analizzò il suo animo e la sua indole. Le diede consigli. La aiutò perfino a creare un profilo sul sito Bdsm. E incoraggiò i primi passi del suo esibizionismo, divertendosi a leggerla mentre commentava le sue foto un po' spinte. Non è qualcosa che capita spesso tra allieva e prof. E certamente non è qualcosa di cui vantarsi alle riunioni con i genitori.
Ma poi la giovane Giulia cominciò a camminare più veloce e ad andare sempre più lontano. Lui ne fu felice, specie quando seppe che aveva provato la sua prima volta, quella vera, non al telefono o in videochat.
Chiuse gli occhi e non fu difficile immaginarla. Lo aveva fatto cento volte, eccitandosi. Solo che le mani che la legavano, la tormentavano e la coccolavano non erano le sue.
“Matte..”
“Bimba..”
“Ti ho fatto male a dirtelo?”
“No. Sono felice per te. E poi..”
“E poi?”
“E poi ti ho accompagnata io lungo la strada che era giusta per te. Già siamo abbastanza qualcosa di strano, per andare oltre. Non è vero?”
“Matte..”
“Bimba..”
“Ti voglio bene”
“Anche io”
Il mondo oscuro di quella sera era una chat anonima. Parole chiave selezionate “schiava”, “padrone”, “dominazione”, “sottomissione”, per cercare persone con i suoi stessi interessi, quelli che aveva maturato in anni di letture, da De Sade a Histoire d'O. E più di recente in un pochino di pratica, frequentando club, incontri, siti web specializzati.
È sbagliato dire che cercasse persone. Cercava ragazze. O donne. Ma le chat anonime sono cosa da giovani. Così quella con cui stava chiacchierando diceva di avere diciotto anni. Impossibile sapere se fosse vero.
“Faccio l'ultimo anno del liceo classico” gli scrisse.
“Che coincidenza...” rispose lui pensando alla sua scuola, non senza un brivido per quelle due o tre studentesse che avrebbe visto volentieri legate nude a una croce di sant'andrea.
“Perché?”
“Anch'io tanti anni fa ho fatto l'ultimo anno del liceo classico” scherzò, prima di levarsi qualche anno dall'anagrafe, restando peraltro in un'età in cui di una diciottenne avrebbe potuto essere il padre.
Finirono per parlare di scuola e non solo delle sue pulsioni alla sottomissione, al modo così schietto in cui lei viveva e raccontava la sua vita sessuale, al desiderio di sperimentare e provare maturato leggendo e guardando, proprio come era successo a lui.
“Mi darai consigli?” gli chiese.
“Volentieri. Ti lascerai consigliare?” rispose lui.
“Sì..” con due puntini soltanto. Matteo imparò presto che per lei era come una firma.
-+-+-
“Sono anche esibizionista, sai? O almeno credo”
Era la terza notte di fila che passavano a chiacchierare. La chat anonima era diventata un flusso quasi continuo di parole su Telegram. L'insonnia di Matteo era anche quella di Sofia, e chissà se era davvero il suo nome. E se viveva davvero in quella città lontana ma non troppo. Sulla foto profilo aveva un gatto. Lui un primo piano della guancia barbuta.
“Somigli al mio prof preferito” disse. Ma non ci diede peso. Né fece altre domande. Avevano troppo di cui parlare. Piccoli giochi a cui giocare. Passi da compiere insieme.
“Lo so che la differenza tra noi è pesante, specie per l'età. Non potresti farmi un pompino al parco come hai fatto al tuo ex. E non perché io non ne abbia voglia. O perché non potrebbe piacere anche a te. Ma perché se entrassimo insieme in un parco sembreremmo padre e figlia. E non potrei fare quello che vorrei”
“Che cosa, Matte?”
“Afferrarti i polsi, tenerli insieme dietro la schiena stringendoli in una sola mano. Farti immaginare come sarebbe essere legata”.
“Mhhh” scrisse lei.
“Prima o poi dovremmo sentire le nostre voci” rispose lui.”
“O i nostri gemiti”
“O i nostri gemiti. È qualcosa che hai già provato?”
“È qualcosa che adoro. I suoni sono importanti per me. E poi ho capito di più della mia sottomissione anche dalla mia pulsione nel dare piacere, mi viene più facile che riceverne”.
“Cambierà. Io non ti lascerei mai in pace finché non sei stata tu a provare piacere”
“E come faresti?”
Glielo spiegò. Di nuovo. A lungo. Seduto in boxer e maglietta a gambe incrociate sul pavimento di legno della camera da letto. Il cazzo che, a ogni parola digitata, reclamava attenzioni e carezze.
-+-+-
La prima foto arrivò la sera dopo. Era la penultima sera prima della fine delle vacanze di Natale. Era nuda, la pelle candida, i seni liberi, i capezzoli grandi e rosa, eretti per il fresco della notte o forse per l'eccitazione. Le cosce strette a svolgere il compito di ultima, labile barriera di pudore. I fianchi deliziosamente segnati da due curve morbide.
“Hai freddo?” chiese lui.
“Tutt'altro” rispose lei. “Ho messo il termosifone al massimo”.
“È l'unica ragione per cui hai caldo?”
“No” confessò lei.
Poco dopo lui rispose con il suo primo messaggio vocale: “Troverai due sciarpe o due cinture, bimba. Le userai per legarti le gambe in una frogtie. Ricordi quella foto che ti ho mostrato su internet? Ecco, così... Poi allargherai le tue cosce, e lo farai per me. E la tua mano sarà la mia mano”
“Mhhh..” rispose lei, con due puntini e basta.
Lo prese come un incoraggiamento. E continuò a impartirle ordini e a carezzarle la fantasia con la voce.
“Matte..” le scrisse a un certo punto.
“Bimba..” rispose lui, imitando i suoi due puntini.
“Posso chiamarti?”
“Fallo”.
L'auricolare portò direttamente nelle sue orecchie i gemiti di lei, mentre la sua voce dettava il ritmo, spiegava quanto forte e quanto veloce doveva penetrarsi, con quanta cura passare i polpastrelli bagnati sul suo clitoride, con quanta devozione doveva eseguire e basta, mentre le sue gambe legate le ricordavano che la costrizione e la sottomissione era quello che desiderava.
Quando l'onda dell'orgasmo gli travolse l'udito e il cervello, lei si stava toccando ormai da lunghi minuti. “Ho squirtato” confessò dopo un sospiro. E poi confessò ancora: “Matte.. io non riesco mai a venire con qualcuno.. sei.. la mia prima volta..”
Matteo il prof guardò il suo cazzo, che aveva liberato da tempo dalla morsa dei boxer. La prima volta... la prima volta... Dio, come avrebbe voluto esserlo davvero. La prima volta delle corde, dei nodi, delle sculacciate, del dolore che diventa piacere. Ci sarebbe mai riuscito? Avrebbe travolto le barriere di distanza, di età, di opportunità?
-+-+-
Fu insonne anche l'ultima notte di vacanza.
“Poi sarà più difficile” disse lei.
“Anche per me” rispose lui.
“Non mi hai mai detto che lavoro fai”
“Il formatore. Nel senso che formo te nel tuo cammino verso la sottomissione”
“Scemo”
Erano le tre e dieci del mattino quando riattaccarono il telefono.
Chiacchiere, momenti sexy, gemiti, l'orgasmo di lei, quello di lui, i fazzolettini ad asciugarsi la pancia, la chiamata che diventa videochiamata per mostrare nella penombra gli effetti del rispettivo piacere. Lui che mostrò il suo corpo nudo. Lei che indugiò anche sui suoi occhi. Azzurri. Profondi. E poi giù verso la bocca, il mento, il collo, il corpo.
Tra il collo e la spalla un tatuaggio. Fece finta di non notarlo troppo.
“A nanna ora, domani hai scuola”
“Ciao 'more..”
“Ciao bimba. Attenta alle parole. Hanno un peso”
“Perché?”
“Te lo spiegherò. Una lezione apposta”
“Ma così mi spaventi..”
“Buonanotte bimba”
“Uff. Buonanotte”
-+-+-
In terza C doveva andarci in terza ora, subito dopo l'intervallo.
Aveva un groppo d'ansia alla bocca dello stomaco. E c'era un solo modo per scioglierlo: conoscere la verità. Si avviò all'inizio dell'intervallo vicino alla porta della classe. Cercò volti e sguardi. Salutò a cenni i ragazzi che rispondevano con un sorriso, felici di vederlo.
Il gruppetto di Esposito Giulia e delle sue due amiche si fermò a chiacchierare. Ma lui guardava solo Giulia. Ben annodata al collo portava una sciarpa, proprio là dove avrebbe voluto sbirciare.
“Bella sciarpa, Giulia. Ne avrei giusto bisogno. Senti che voce...”
“Ma no prof” trillò Marta, la sua migliore amica. “Lo sa che andiamo pazzi per la sua voce”
“Dici che ho un futuro come doppiatore? O come call center sexy?”. Lo disse guardando Giulia. E se ne pentì. Ma non poteva togliersi dalla testa quel chiodo fisso.
Le ragazze risero. Anche Giulia.
“Hai la faccia stanca” incalzò lui. “Non dovresti fare tardi i giorni prima di scuola”.
“Non ho fatto tardi” rispose Giulia, mettendo su il broncio.
“Dai, non dovrei dirtelo ma sei pallida e hai le occhiaie. Sarai andata a dormire almeno... lasciami fare due conti guardando le occhiaie... diciamo alle tre, tre e dieci”
Le ragazze risero. Giulia arrossì. Quella cazzo di sciarpa...
“Prof, ci controlla?”
“Ma no, controllo solo lei. Almeno fino alle tre, tre e dieci”.
Le ragazze risero di più. Giulia diventò quasi viola.
“Ragazze, io scherzo eh? Ma non sulla sciarpa. Me la presti o no?”
“No, prof. E poi devo andare in bagno”.
-+-+-
La sciarpa se la levò durante la lezione. Il professor Giugni dovette smettere di passeggiare per la classe e appoggiarsi alla cattedra quando vide quel tatuaggio.
Proprio.
Quel.
Tatuaggio.
Doveva essere una lezione su Hegel. Finì per essere un monologo a tema, sul cuore e sulla ragione, tra Pascal e Sant'Agostino, o forse tra Fabio Volo e il Piccolo Principe. La ragione – disse – deve essere la guida principale delle nostre azioni. Ma ci sono ambiti in cui agire secondo i dettami della razionalità è sbagliato. Esistono strade assurde da percorrere, ma che portano dopo ripide salite e percorsi scoscesi a panorami magnifici. Razionalmente nessun uomo avrebbe scalato montagne a quaranta gradi sottozero. O sarebbe salito su una navicella spaziale costruita per atterrare sulla Luna. O sarebbe sceso da quella navicella per camminare sulla superficie della Luna. “Lo sentite l'eco dei dubbi e delle domande?” disse. “Fatevele anche voi: e se la navicella non ripartisse? E se restassi per sempre accanto a questo cratere? O meglio finché ho ossigeno da respirare per poi morire asfissiato tra sofferenze atroci? E se la tempesta mi sorprendesse mentre scalo l'Everest e non trovassi né la vetta né la via per ridiscendere? E se... e se... E se l'uomo non avesse mai osato superare i limiti scegliendo il cuore, quanti passi in meno avremmo compiuto? Non solo quelli sulla superficie della Luna...”
La classe taceva, come non mai. Il professor Giugni restava appoggiato con i lombi alla cattedra, cercando gli sguardi di ognuno spaziando di banco in banco. E poi cercando lo sguardo di Giulia. Che però si abbassava quando toccava a lei. Aveva capito, ovvio.
“Quando parlate di amore” disse, guardandola invano “lasciate che sia il vostro cuore a dirlo. Usate la parola non come un intercalare, una virgola, un'esclamazione a caso. Usatela se ve la sta dettando il cuore. E provate la vertigine di abbandonarvi ad essa. La paura di essere respinti, quella stessa paura di chi era sulla Luna e non sapeva se sarebbe tornato a casa. Ma la paura che viene zittita dal cuore, dal desiderio, dalla spinta incontrovertibile a evolversi, progredire, sperimentare”.
Suonò il campanello. Ma non ci fu stridere di sedie sui pavimenti. La classe e il prof stettero in silenzio finché non smise di trillare. E poi per qualche secondo ancora. “Ragazzi, è stata una lezione strana, scusate. Non sarà materia di interrogazione. Ma spero che sarà materia per le vostre vite”. Poi prese la borsa e uscì dando le spalle a tutti. Soprattutto a Giulia.
-+-+-
Telegram tacque quella sera. E quella dopo. E quella dopo ancora.
Matteo non ci entrava. O meglio, controllava duecento volte al giorno le notifiche. Ma tra quelle di Instagram, di Facebook, di Whatsapp, le email che lo avvertivano di aggiornamenti sul sito dedicato al bdsm su cui aveva un profilo, non c'era mai la risposta alla sua domanda. E a scuola l'argomento non era più stato nemmeno sfiorato. Semplicemente, si evitavano nei corridoi e quando in classe evitarsi del tutto era impossibile, lui era strettamente professionale e lei fredda e distaccata come un'allieva qualsiasi non particolarmente interessata alla filosofia.
Capitava che Matteo guardasse le foto, che Telegram conservava nella memoria della chat. Non avrebbe dovuto. Non più. Ogni foto era una minaccia intrinseca alla sua carriera e alla sua reputazione. Ma non era quello il punto. La verità è che Matteo stava bene con lei. Si sentiva importante. Amava quelle conversazioni in cui la differenza di età si annullava nella curiosità reciproca, e nell'intelligenza indiscussa. E amava il modo in cui si passava da argomenti seri a confidenze intime, fino all'impulso di desiderarsi e di giocare e di immaginare. Ma era il passato. E sarebbe stato meglio se non fosse tornato a essere il presente. Così diceva la sua ragione. Smentendo i sussulti che sentiva il suo cuore, ovviamente.
-+-+-
“Matte..”
Il messaggio arrivò molte sere dopo. La notifica bastò a fargli accelerare i battiti. Ma respirò profondo e si calmò prima di rispondere. Si prese anche mentalmente in giro: la stava facendo aspettare come le peggio belle fighe, mentre in realtà non attendeva che quel messaggio, da giorni.
“Bimba..” le scrisse, con due puntini e basta come se fosse un codice solo loro.
“Ciao..”
“Come stai?”
“Dovresti saperlo”
“Non sono cose di cui si parla a lezione, bimba..”
“Sto bene. Frastornata. Ancora un po' incazzata. Ma sto bene”
“Hai capito subito, quando te l'ho fatto capire io?”
“Voglio sapere quando lo hai capito tu”
“Quella mattina a scuola, vedendoti arrossire. Avevo visto il tatuaggio la sera prima in videochat, ma non ci avevo quasi fatto caso. Poi ripensandoci dopo... Ma tu quel giorno tenevi la sciarpa e non te la volevi levare”.
“Non lo sapevi prima? Giuralo..”
“Io non ero un insegnante e tu non eri della mia città. Non potevo immaginare una simile coincidenza. E non ti avevo riconosciuta. Non ti avevo mai vista... così...”
“Matte..”
“Bimba..”
“Mi manchi”
“Bimba, non dovremmo neanche iniziare questa conversazione”
“Forse è un po' tardi per tornare indietro. Sai cose di me che non oso ripetermi neppure da sola”
“E tu di me, bimba. Potresti mandarmi in rovina in dieci secondi”
“Non lo farei mai”
“Lo so”
“Perché?”
“Perché hai un'anima grande”
“Matte..”
“Bimba..”
“Guidami ancora”
“Riusciresti ancora ad avere a che fare con me a scuola?”
“Non lo so”
“Nemmeno io. Ma mi manchi anche tu”
“È assurdo”
“Lo era dall'inizio. Continueremmo a non essere presentabili se camminassimo mano nella mano al parco”
“Matte, non sono una da effusioni zucchero e miele”
“Dicevo per fare un esempio. Ma anche incontrarci, prenotare una stanza d'albergo. Padre e figlia in vacanza insieme? Ma con le manette e i plug nel borsone?”
“Matte..”
“Bimba..”
“Come dicevi tu della ragione e del cuore quella mattina a lezione?”
“Mi ricordo. Che cosa dice il tuo cuore?”
“Che non voglio perderti. Come prof e come... non so, cosa cazzo siamo noi due?”
“Qualcosa di strano”
“Allora come qualcosa di strano”
“Sai tenere i segreti?”
“Sì”
“Anche io. Allora nessuno saprà mai di noi. E tu troverai Matte la guida qui, quando vorrai”
“Matte..”
“Bimba..”
“Grazie”
-+-+-
Non poteva essere tutto come prima. Matteo lo sapeva, se lo aspettava. E forse era giusto così.
La guidò, dissipò i suoi dubbi, analizzò il suo animo e la sua indole. Le diede consigli. La aiutò perfino a creare un profilo sul sito Bdsm. E incoraggiò i primi passi del suo esibizionismo, divertendosi a leggerla mentre commentava le sue foto un po' spinte. Non è qualcosa che capita spesso tra allieva e prof. E certamente non è qualcosa di cui vantarsi alle riunioni con i genitori.
Ma poi la giovane Giulia cominciò a camminare più veloce e ad andare sempre più lontano. Lui ne fu felice, specie quando seppe che aveva provato la sua prima volta, quella vera, non al telefono o in videochat.
Chiuse gli occhi e non fu difficile immaginarla. Lo aveva fatto cento volte, eccitandosi. Solo che le mani che la legavano, la tormentavano e la coccolavano non erano le sue.
“Matte..”
“Bimba..”
“Ti ho fatto male a dirtelo?”
“No. Sono felice per te. E poi..”
“E poi?”
“E poi ti ho accompagnata io lungo la strada che era giusta per te. Già siamo abbastanza qualcosa di strano, per andare oltre. Non è vero?”
“Matte..”
“Bimba..”
“Ti voglio bene”
“Anche io”
IL NULLA E IL TROPPO
“Pronto... ma che sorpresa”
“Padrone...”
“Dimmi signorina. Stai bigiando al lavoro?”
“Padrone, io non so se ce la faccio”
“Giornata pesante, signorina?”
“Io non so se ce la faccio a resistere. Il mio compito. La punizione”
“Vuoi rinunciare?”
“No! No... Voglio... compiacerla. Ma... è difficile”
“Ti aspetto fra un’ora. Vieni da me. Ne parleremo”
Lui riattaccò senza aggiungere altro.
Lei fissò lo schermo del telefono che tornava a colorarsi delle icone delle app. Il suo "no", quasi urlato, non era da lei: si spaventò un poco di se stessa. E anche la voce di lui l’aveva gettata nel panico. Era fredda e dura, di metallo solido. Non lasciava trapelare l’ombra di un’emozione. Era arrabbiato? L’avrebbe punita? O aveva in mente di liberarla da quel compito che si era rivelato così improbo, trenta giorni di astinenza senza poter avere un orgasmo?
Trenta giorni sono infiniti. Specie perché lei aveva la testa rigonfia di fantasie, e al centro di ognuna c’era lui. Era così ansiosa di abbandonarsi, di compiacerlo. E invece lui non l’avrebbe nemmeno toccata ancora per un po'. Aveva promesso una grande ricompensa se lei avesse resistito. Ma non era quella la ragione che la faceva tener duro, ora che di giorni ne erano passati già venti, due terzi del cammino. La spinta era la devozione, il desiderio di mostrarsi all’altezza, di poterlo guardare negli occhi quando lui alla fine del compito le avrebbe sollevato il viso afferrandole il mento e le guance. E lei avrebbe letto nel suo sguardo l’orgoglio, la soddisfazione, il compiacimento. Ecco la parola esatta: voleva che compiacerlo fosse il suo ruolo nel mondo, quello in cui si sarebbe trovata più a suo agio.
Quell’ora non passò mai. Il tempo dilatato dal non poter fare quello che avrebbe desiderato sembrava stiracchiarsi e allungarsi come la creta nelle mani di un vasaio. Aspettava, ripetendo come una poesia delle elementari da mandare a memoria le parole della telefonata, vivisezionandole nella mente alla ricerca di una risposta che non c’era.
Così uscì in anticipo. E arrivò nel suo studio di psicologo troppo presto: se ne accorse quando suonò il citofono e invece di lui rispose il clic dell’apertura automatica. Salì con il cuore in gola, anche se sapeva che avrebbe dovuto aspettare. La segretaria aveva già lasciato la sua postazione dietro la scrivania dell’atrio. Ma la porta dello studio era ancora sigillata. Era a colloquio con l’ultimo paziente del giorno. Anzi, il penultimo. Dopo sarebbe toccato a lei e ai suoi dilemmi.
Quando la porta si aprì, lei tenne lo sguardo sul pavimento. Ascoltò la sua voce monocorde dire “Arrivo subito, signorina” e poi con la coda dell’occhio lo vide accompagnare lo sconosciuto all'uscita e poi chiuderla a chiave. Tornò senza dire una parola: si fermò accanto alla porta dello studio e la guardò severo. Solo allora lei si alzò veloce e lo precedette nella stanza con la scrivania, il divano, le poltrone; le sedie, il lettino, il tavolino rotondo con il piano di vetro. Ogni oggetto, il ricordo di un gioco o di una sessione, perché quella era la stanza dove tutto era cominciato.
Quando lui chiuse la porta, anche questa a chiave, si voltò verso di lei e sorridendo si avvicinò. Lei sentì il nodo in gola sciogliersi nel sollievo e in una lacrima, prima ancora che lui le domandasse “Allora, che succede?” carezzandole con dolcezza i capelli. Lei tuffò il viso nella sua spalla, liberando l’ansia in un pianto con i singhiozzi, i palmi delle mani appoggiati al suo petto sperando in un abbraccio che non tardò ad arrivare.
“Tranquilla signorina, tranquilla. Tutto si sistema”
“Oh Padrone...”
“Ora basta piangere”
“Sì...”
“Levati i jeans, le mutandine, le scarpe e le calze. E inginocchiati davanti alla solita poltrona. Cosce aperte, mani con i palmi all’insù, come le schiave più devote”
Lei eseguì senza discutere. Il tempo dell’imbarazzo era ormai superato. Davanti ai suoi occhi era diventato un piacere mostrarsi, perché sapeva quanto avrebbe potuto eccitarsi.
“Le mutandine. Consegnamele”
Obbedì, raccogliendole dal tappeto dove le aveva posate accanto al mucchietto degli altri vestiti.
“Cazzo, sono oscenamente bagnate. I casi sono due, signorina. O mi hai mentito e ci hai squirtato dentro oppure ti ecciti come la più incontrollata delle ninfomani”.
“No Padrone” rispose lei scuotendo la testa con enfasi. “Non le ho mentito. E non sono venuta. Non lo faccio da venti giorni. E sono così eccitata perché lo desidero ogni giorno di più”.
“Volevi parlarmi di questo, vero? Speri che il tuo Padrone ti faccia godere e liberi l’animaletto in gabbia che è in te?”
“Padrone no, io voglio assolutamente resistere fino in fondo e compiacerla”.
“Ma è faticoso”
“Tanto. Mi sembra di non riuscire a pensare ad altro”.
“Ti stai trasformando in una vera piccola porcellina, insomma. E non sei una bugiarda, dunque”
“No Padrone, no...”
“Lo so che non lo sei” disse alzandosi dalla poltrona. E poi camminandole lentamente intorno. “Saresti stupida se ti fossi masturbata o fatta scopare da chissà chi e poi fossi venuta qui. E comunque posso accorgermi in un attimo se hai avuto un orgasmo oppure no”.
Si mise in piedi davanti a lei, nello spazio angusto tra le sue ginocchia e la poltrona. Le afferrò i capelli. La spinse giù con il viso sui suoi piedi. Lei comprese l’ordine implicito e cominciò a baciare la pelle nera della tomaia di quelle scarpe con i lacci, così inglesi e così eleganti.
“Sarebbe un gioco” proseguì lui. “Mi basterebbe sfiorarti con le dita, misurare quanto sei bagnata, ascoltare i tuoi gemiti, guardare le piccole reazioni involontarie del tuo corpo...”
Lei si sentiva avvampare di calore e le sembrava di percepire il bagnato del suo nettare sgorgare, una goccia grassottella dopo l’altra, dalla sua figa. Lui si allontanò, lasciandola con il viso sul tappeto e con il culetto esposto all'aria, e si spostò alle sue spalle. Lei rimase immobile, attendendo un ordine, una parola.
"Sei ancora bagnata. Incredibilmente bagnata. Hai le grandi labbra che luccicano. E le piccole labbra che sporgono fuori in attesa di qualcosa".
Lei non sapeva se ringraziare o chiedergli scusa. Così tacque, la guancia quasi graffiata dalla lana grezza del tappeto.
"Ho pensato a una cosa per te signorina".
Camminava avanti e indietro, centellinando le parole. E lei ancora in silenzio.
"Potrei metterti di fronte a una scelta".
Ancora passi, ancora silenzio. Lei sentiva il cuore in gola.
"Su, in ginocchio, signorina. Voglio che mi guardi mentre ti parlo".
Lei si sollevò. Lui si sedette di nuovo sulla poltrona di fronte a lei.
"Ora potrai scegliere tra due opzioni. Ed entrambe si baseranno sulla disciplina".
Lei lo guardò negli occhi. Vide le pupille brillare. Colpa del suo viso senza segreti: gli aveva appena detto che era curiosa, devota, pronta a tutto.
"Puoi scegliere se portare a termine il tuo compito. Ti mancano dieci giorni. Li trascorrerai senza orgasmi. Soffrirai e aspetterai, ti bagnerai e patirai il supplizio di non poterti nemmeno sfiorare, perché se solo lo facessi verresti in pochi istanti, come una piccola porcellina ninfomane vogliosa. Che del resto è quello che sei".
Le sfuggì un piccolo sorriso. Chissà se era opportuno.
"Se scegliessi questa strada, sarei molto orgoglioso di te, della tua forza d'animo e della tua obbedienza, che è disposta ad accettare anche sacrifici duri, pur di ottemperare a un principio. Ma sarei altrettanto orgoglioso di te anche se scegliessi l'altra strada. Sei curiosa ora?"
Lei annuì in silenzio, ancora con il piccolo sorriso sulle sue labbra.
"La seconda strada è affidarti completamente a me, e affidarmi i tuoi orgasmi. Vedi quella sedia? Legherei le tue mani dietro la schiena, le tue caviglie alle gambe della seggiola, in modo da tenere le tue cosce aperte. Prenderei il vibratore, il dildo, userei le dita, la bocca, il cazzo. Sentiresti carezze, stimolazioni, pizzicotti, schiaffi. E verresti una, due, tre, quattro, cinque volte e tutte le volte che mi andrà finché deciderò che non ne hai avuto abbastanza. Anche quando ogni tocco ti farà male, anche quando la tua voglia sarà diluita nel piacere degli orgasmi in successione e vorresti solo coccole e riposo. Le mie coccole e il riposo che ti concederei tra le mie braccia".
Lei si sentiva avvampare, un calore che scaturiva tra le sue cosce aperte e saliva lungo la spina dorsale fino a invaderle e annebbiarle la mente.
"La scelta è tua, signorina" disse lui accavallando le gambe.
La testa di lei pullulava di immagini: gli orgasmi forzati, la sensazione impagabile di sentirsi completamente nelle sue mani. Ma dall'altro canto il desiderio di disciplina, che anelava così tanto, quello di essere trattata con inflessibile severità, di subire decisioni e scelte da cui non si torna indietro.
"Padrone..." esordì lei con un filo di voce e le labbra che tremavano di emozione e desiderio.
"Padrone... ho così tanta voglia che se solo lei mi sfiorasse io potrei esplodere".
"Lo so, signorina"
"Ma voglio porgerle in dono la mia tenacia nel portare a termine un compito che è così difficile per me. Voglio resistere. Voglio farlo per lei. Solo per lei, Padrone".
"È la tua decisione, signorina?"
"Sì" disse lei, con il volto di una bambina fiera che ha appena detto al papà di non avere più paura del buio.
Lui si alzò, le carezzò le guance e i capelli, si chinò verso di lei per baciarle le labbra con leggerezza. "Sono così orgoglioso di te" le sussurrò all'orecchio. E lei si sentì sciogliere. Poi, slacciandosi lentamente i pantaloni eleganti, proprio davanti al suo viso, liberò il cazzo palesemente eccitato.
"La devozione è sexy, signorina. Hai visto che cosa sei riuscita a fare?"
Lei pensò al discorso che avevano fatto un giorno, sul potere che una sottomessa ha verso il suo dominatore, quello di essere al centro del suo desiderio di piacere, di essere l'unica via di collegamento tra le sue fantasie e la realtà. Lo fece mentre apriva la bocca, compiaciuta e felice di averlo eccitato con l'obbedienza, per accogliere la sua erezione. La sentì crescere ancora mentre lui si muoveva lentamente carezzandole la lingua con il membro. Prima di lui, odiava che un uomo le venisse in bocca. Ora era lei a domandargli di farlo. Pensò a quello che sarebbe accaduto dieci giorni dopo, alla ricompensa, all'orgoglio di lui per essere stata brava proprio come desiderava. Pensò alle labbra di lui serrate a circondare il suo clitoride. Alla lingua che scavava il solco tra le sue piccole labbra bagnate e profumate. Si bagnò, mentre replicava quelle sensazioni sul cazzo del suo padrone, che ansimava senza controllo come un predatore che ha messo in trappola la preda e si gode il momento dell'attesa prima di affondare i denti nella sua carne.
Invece fu una sorpresa quando, con un passo indietro rapido, lui si allontanò da lei, prima ancora che le goccioline sapide annunciassero il suo orgasmo imminente, che lei doveva prepararsi ad accogliere e gustare. Lei, con le labbra ancora spalancate, lo guardò con aria interrogativa.
"Oggi imparerò una lezione da te, quella della pazienza" disse, allacciandosi i pantaloni che contenevano a fatica quell'erezione che lei aveva reso così intensa. "Anche io attenderò ancora dieci giorni prima di farti assaporare il mio seme, prima che tu possa compiacerti di avermi fatto godere. E poi non sarebbe giusto lasciarti a bocca asciutta mentre io mi ingozzo, giusto?"
Lei sorrise: "Grazie, Padrone"
"A casa ora. C'è una vita vanilla che ci aspetta. E ricordati, non lasciarti toccare nemmeno da lui. Ma quello è un compito facile: a lui puoi dire no e ti deve dare ascolto. Se dicessi no a me invece..."
“Padrone...”
“Dimmi signorina. Stai bigiando al lavoro?”
“Padrone, io non so se ce la faccio”
“Giornata pesante, signorina?”
“Io non so se ce la faccio a resistere. Il mio compito. La punizione”
“Vuoi rinunciare?”
“No! No... Voglio... compiacerla. Ma... è difficile”
“Ti aspetto fra un’ora. Vieni da me. Ne parleremo”
Lui riattaccò senza aggiungere altro.
Lei fissò lo schermo del telefono che tornava a colorarsi delle icone delle app. Il suo "no", quasi urlato, non era da lei: si spaventò un poco di se stessa. E anche la voce di lui l’aveva gettata nel panico. Era fredda e dura, di metallo solido. Non lasciava trapelare l’ombra di un’emozione. Era arrabbiato? L’avrebbe punita? O aveva in mente di liberarla da quel compito che si era rivelato così improbo, trenta giorni di astinenza senza poter avere un orgasmo?
Trenta giorni sono infiniti. Specie perché lei aveva la testa rigonfia di fantasie, e al centro di ognuna c’era lui. Era così ansiosa di abbandonarsi, di compiacerlo. E invece lui non l’avrebbe nemmeno toccata ancora per un po'. Aveva promesso una grande ricompensa se lei avesse resistito. Ma non era quella la ragione che la faceva tener duro, ora che di giorni ne erano passati già venti, due terzi del cammino. La spinta era la devozione, il desiderio di mostrarsi all’altezza, di poterlo guardare negli occhi quando lui alla fine del compito le avrebbe sollevato il viso afferrandole il mento e le guance. E lei avrebbe letto nel suo sguardo l’orgoglio, la soddisfazione, il compiacimento. Ecco la parola esatta: voleva che compiacerlo fosse il suo ruolo nel mondo, quello in cui si sarebbe trovata più a suo agio.
Quell’ora non passò mai. Il tempo dilatato dal non poter fare quello che avrebbe desiderato sembrava stiracchiarsi e allungarsi come la creta nelle mani di un vasaio. Aspettava, ripetendo come una poesia delle elementari da mandare a memoria le parole della telefonata, vivisezionandole nella mente alla ricerca di una risposta che non c’era.
Così uscì in anticipo. E arrivò nel suo studio di psicologo troppo presto: se ne accorse quando suonò il citofono e invece di lui rispose il clic dell’apertura automatica. Salì con il cuore in gola, anche se sapeva che avrebbe dovuto aspettare. La segretaria aveva già lasciato la sua postazione dietro la scrivania dell’atrio. Ma la porta dello studio era ancora sigillata. Era a colloquio con l’ultimo paziente del giorno. Anzi, il penultimo. Dopo sarebbe toccato a lei e ai suoi dilemmi.
Quando la porta si aprì, lei tenne lo sguardo sul pavimento. Ascoltò la sua voce monocorde dire “Arrivo subito, signorina” e poi con la coda dell’occhio lo vide accompagnare lo sconosciuto all'uscita e poi chiuderla a chiave. Tornò senza dire una parola: si fermò accanto alla porta dello studio e la guardò severo. Solo allora lei si alzò veloce e lo precedette nella stanza con la scrivania, il divano, le poltrone; le sedie, il lettino, il tavolino rotondo con il piano di vetro. Ogni oggetto, il ricordo di un gioco o di una sessione, perché quella era la stanza dove tutto era cominciato.
Quando lui chiuse la porta, anche questa a chiave, si voltò verso di lei e sorridendo si avvicinò. Lei sentì il nodo in gola sciogliersi nel sollievo e in una lacrima, prima ancora che lui le domandasse “Allora, che succede?” carezzandole con dolcezza i capelli. Lei tuffò il viso nella sua spalla, liberando l’ansia in un pianto con i singhiozzi, i palmi delle mani appoggiati al suo petto sperando in un abbraccio che non tardò ad arrivare.
“Tranquilla signorina, tranquilla. Tutto si sistema”
“Oh Padrone...”
“Ora basta piangere”
“Sì...”
“Levati i jeans, le mutandine, le scarpe e le calze. E inginocchiati davanti alla solita poltrona. Cosce aperte, mani con i palmi all’insù, come le schiave più devote”
Lei eseguì senza discutere. Il tempo dell’imbarazzo era ormai superato. Davanti ai suoi occhi era diventato un piacere mostrarsi, perché sapeva quanto avrebbe potuto eccitarsi.
“Le mutandine. Consegnamele”
Obbedì, raccogliendole dal tappeto dove le aveva posate accanto al mucchietto degli altri vestiti.
“Cazzo, sono oscenamente bagnate. I casi sono due, signorina. O mi hai mentito e ci hai squirtato dentro oppure ti ecciti come la più incontrollata delle ninfomani”.
“No Padrone” rispose lei scuotendo la testa con enfasi. “Non le ho mentito. E non sono venuta. Non lo faccio da venti giorni. E sono così eccitata perché lo desidero ogni giorno di più”.
“Volevi parlarmi di questo, vero? Speri che il tuo Padrone ti faccia godere e liberi l’animaletto in gabbia che è in te?”
“Padrone no, io voglio assolutamente resistere fino in fondo e compiacerla”.
“Ma è faticoso”
“Tanto. Mi sembra di non riuscire a pensare ad altro”.
“Ti stai trasformando in una vera piccola porcellina, insomma. E non sei una bugiarda, dunque”
“No Padrone, no...”
“Lo so che non lo sei” disse alzandosi dalla poltrona. E poi camminandole lentamente intorno. “Saresti stupida se ti fossi masturbata o fatta scopare da chissà chi e poi fossi venuta qui. E comunque posso accorgermi in un attimo se hai avuto un orgasmo oppure no”.
Si mise in piedi davanti a lei, nello spazio angusto tra le sue ginocchia e la poltrona. Le afferrò i capelli. La spinse giù con il viso sui suoi piedi. Lei comprese l’ordine implicito e cominciò a baciare la pelle nera della tomaia di quelle scarpe con i lacci, così inglesi e così eleganti.
“Sarebbe un gioco” proseguì lui. “Mi basterebbe sfiorarti con le dita, misurare quanto sei bagnata, ascoltare i tuoi gemiti, guardare le piccole reazioni involontarie del tuo corpo...”
Lei si sentiva avvampare di calore e le sembrava di percepire il bagnato del suo nettare sgorgare, una goccia grassottella dopo l’altra, dalla sua figa. Lui si allontanò, lasciandola con il viso sul tappeto e con il culetto esposto all'aria, e si spostò alle sue spalle. Lei rimase immobile, attendendo un ordine, una parola.
"Sei ancora bagnata. Incredibilmente bagnata. Hai le grandi labbra che luccicano. E le piccole labbra che sporgono fuori in attesa di qualcosa".
Lei non sapeva se ringraziare o chiedergli scusa. Così tacque, la guancia quasi graffiata dalla lana grezza del tappeto.
"Ho pensato a una cosa per te signorina".
Camminava avanti e indietro, centellinando le parole. E lei ancora in silenzio.
"Potrei metterti di fronte a una scelta".
Ancora passi, ancora silenzio. Lei sentiva il cuore in gola.
"Su, in ginocchio, signorina. Voglio che mi guardi mentre ti parlo".
Lei si sollevò. Lui si sedette di nuovo sulla poltrona di fronte a lei.
"Ora potrai scegliere tra due opzioni. Ed entrambe si baseranno sulla disciplina".
Lei lo guardò negli occhi. Vide le pupille brillare. Colpa del suo viso senza segreti: gli aveva appena detto che era curiosa, devota, pronta a tutto.
"Puoi scegliere se portare a termine il tuo compito. Ti mancano dieci giorni. Li trascorrerai senza orgasmi. Soffrirai e aspetterai, ti bagnerai e patirai il supplizio di non poterti nemmeno sfiorare, perché se solo lo facessi verresti in pochi istanti, come una piccola porcellina ninfomane vogliosa. Che del resto è quello che sei".
Le sfuggì un piccolo sorriso. Chissà se era opportuno.
"Se scegliessi questa strada, sarei molto orgoglioso di te, della tua forza d'animo e della tua obbedienza, che è disposta ad accettare anche sacrifici duri, pur di ottemperare a un principio. Ma sarei altrettanto orgoglioso di te anche se scegliessi l'altra strada. Sei curiosa ora?"
Lei annuì in silenzio, ancora con il piccolo sorriso sulle sue labbra.
"La seconda strada è affidarti completamente a me, e affidarmi i tuoi orgasmi. Vedi quella sedia? Legherei le tue mani dietro la schiena, le tue caviglie alle gambe della seggiola, in modo da tenere le tue cosce aperte. Prenderei il vibratore, il dildo, userei le dita, la bocca, il cazzo. Sentiresti carezze, stimolazioni, pizzicotti, schiaffi. E verresti una, due, tre, quattro, cinque volte e tutte le volte che mi andrà finché deciderò che non ne hai avuto abbastanza. Anche quando ogni tocco ti farà male, anche quando la tua voglia sarà diluita nel piacere degli orgasmi in successione e vorresti solo coccole e riposo. Le mie coccole e il riposo che ti concederei tra le mie braccia".
Lei si sentiva avvampare, un calore che scaturiva tra le sue cosce aperte e saliva lungo la spina dorsale fino a invaderle e annebbiarle la mente.
"La scelta è tua, signorina" disse lui accavallando le gambe.
La testa di lei pullulava di immagini: gli orgasmi forzati, la sensazione impagabile di sentirsi completamente nelle sue mani. Ma dall'altro canto il desiderio di disciplina, che anelava così tanto, quello di essere trattata con inflessibile severità, di subire decisioni e scelte da cui non si torna indietro.
"Padrone..." esordì lei con un filo di voce e le labbra che tremavano di emozione e desiderio.
"Padrone... ho così tanta voglia che se solo lei mi sfiorasse io potrei esplodere".
"Lo so, signorina"
"Ma voglio porgerle in dono la mia tenacia nel portare a termine un compito che è così difficile per me. Voglio resistere. Voglio farlo per lei. Solo per lei, Padrone".
"È la tua decisione, signorina?"
"Sì" disse lei, con il volto di una bambina fiera che ha appena detto al papà di non avere più paura del buio.
Lui si alzò, le carezzò le guance e i capelli, si chinò verso di lei per baciarle le labbra con leggerezza. "Sono così orgoglioso di te" le sussurrò all'orecchio. E lei si sentì sciogliere. Poi, slacciandosi lentamente i pantaloni eleganti, proprio davanti al suo viso, liberò il cazzo palesemente eccitato.
"La devozione è sexy, signorina. Hai visto che cosa sei riuscita a fare?"
Lei pensò al discorso che avevano fatto un giorno, sul potere che una sottomessa ha verso il suo dominatore, quello di essere al centro del suo desiderio di piacere, di essere l'unica via di collegamento tra le sue fantasie e la realtà. Lo fece mentre apriva la bocca, compiaciuta e felice di averlo eccitato con l'obbedienza, per accogliere la sua erezione. La sentì crescere ancora mentre lui si muoveva lentamente carezzandole la lingua con il membro. Prima di lui, odiava che un uomo le venisse in bocca. Ora era lei a domandargli di farlo. Pensò a quello che sarebbe accaduto dieci giorni dopo, alla ricompensa, all'orgoglio di lui per essere stata brava proprio come desiderava. Pensò alle labbra di lui serrate a circondare il suo clitoride. Alla lingua che scavava il solco tra le sue piccole labbra bagnate e profumate. Si bagnò, mentre replicava quelle sensazioni sul cazzo del suo padrone, che ansimava senza controllo come un predatore che ha messo in trappola la preda e si gode il momento dell'attesa prima di affondare i denti nella sua carne.
Invece fu una sorpresa quando, con un passo indietro rapido, lui si allontanò da lei, prima ancora che le goccioline sapide annunciassero il suo orgasmo imminente, che lei doveva prepararsi ad accogliere e gustare. Lei, con le labbra ancora spalancate, lo guardò con aria interrogativa.
"Oggi imparerò una lezione da te, quella della pazienza" disse, allacciandosi i pantaloni che contenevano a fatica quell'erezione che lei aveva reso così intensa. "Anche io attenderò ancora dieci giorni prima di farti assaporare il mio seme, prima che tu possa compiacerti di avermi fatto godere. E poi non sarebbe giusto lasciarti a bocca asciutta mentre io mi ingozzo, giusto?"
Lei sorrise: "Grazie, Padrone"
"A casa ora. C'è una vita vanilla che ci aspetta. E ricordati, non lasciarti toccare nemmeno da lui. Ma quello è un compito facile: a lui puoi dire no e ti deve dare ascolto. Se dicessi no a me invece..."
SKIN TRADE
Mi sento strana. Stanca. Appagata. Ma strana.
Le sinapsi che si riattivano lentamente, gli occhi che restano chiusi per non dover sopportare la luce dell’alba, la sensazione di leggerezza e sollievo dopo una notte particolarmente intensa. Tutto nella norma. O meglio, meravigliosamente fuori norma.
Non sento corde attorno ai miei polsi. Né alle mie caviglie. Eppure ricordo la loro dolce morsa. Lui deve avermi liberata mentre dormivo. Né la mia bocca sembra forzata o costretta da bavagli. Avvicino una mano alla guancia per esserne sicura, o solo per sentire gli strati appiccicosi dei nostri umori mescolati sulla mia pelle e...
Oddio. Oh cazzo. Peli. Ispidi. Barba. Sul mio viso.
Balzo sul letto. Apro gli occhi. Il tempo di abituarli alla luce e quel che vedo... non è il mio corpo. È il suo. Ma sono io ad averlo. Io dentro di lui. Scosto il lenzuolo. Sono nuda. Nudo. Non lo so più.
Il cuore batte veloce. Il pene semieretto è appoggiato sulla mia coscia. Allungo una mano, d’istinto. Lo tocco. La sensazione familiare al tatto si mischia a qualcosa di completamente nuovo, la carezza piacevole delle dita sui punti sensibili dove la pelle copre appena il glande. Conosco ogni millimetro di quel pene per averlo coccolato, accolto, adorato. E ora è qualcosa di mio.
Dio, ne ho sempre desiderato uno, per capire come ci si sente quando diventa duro, quando lo si usa per penetrare. Ho sempre sognato anche di fare l’elicottero. E così rido di una risatina isterica, dimenticandomi della situazione assurda e smettendo di chiedermi che cosa sia successo.
Ma... se io sono lui, lui dov’è? E che ne è stato del mio corpo?
Mi volto verso l’altro lato del letto. C’è qualcuno tra le lenzuola candide e stropicciate. Le braccia protese verso l’alto, i polsi legati da una sciarpa scura che si allaccia alla vecchia testiera in ferro battuto. I riccioli anarchici sparsi sul cuscino dove il viso è quasi schiacciato, forse solo per riparare gli occhi dalla luce.
Dio, sono io. E mi sto guardando da fuori. Penso alla sua frase, quella che mi ripete ossessivamente ogni volta che mi trovo brutta, o inadeguata, o insicura. “Bimba, se solo potessi guardarti con i miei occhi”, dice... Oddio, ora è quello che sto facendo. Ed è spaventoso. Miracoloso. Eccitante.
Scosto lentamente il lenzuolo per scoprire il mio corpo nudo. Il suo. Il mio.
La schiena. La linea dei fianchi che lui adora. Il sedere, che allo specchio trovo così insopportabilmente grosso, e poi lui mi sgrida. E che oggi vedo con i segni rossi delle sue mani, ricordo della notte irruenta.
Mi guardo e sento una sensazione nuova tra le mie cosce. Sbircio l’erezione che si sta ricomponendo. Dio, sono uguale a lui. Se fossi lui ora mi sveglierei, mi prenderei per i capelli, sussurrerei un “buongiorno bimba” per poi spingere la mia testa contro il pene eretto, per il pompino dell’aurora. Poi ci penso su un secondo. Ehi, io sono lui...
Sorrido al pensiero diabolico: essere lui, fino in fondo. Scendo silenziosamente dal letto. Il pene eretto oscilla libero all'aria, il glande completamente esposto, la pelle ripiegata a incorniciarlo come il bordo di cartone colorato del cono di un calippo alla fragola. Solo che questo è caldo. Caldissimo.
Giro intorno al letto. Mi guardo. Lo guardo. Mi guardo. Ho gli occhi chiusi, una specie di sorriso. Le mutandine poco lontano dalla bocca, ancora appallottolate. Me le ha sfilate, prima di lasciarmi addormentare. Ma sono rimaste lì. I seni che cadono in modo strano, maltrattati dalla forza di gravità, in quel modo che io detesto e lui adora. Dio, com'è difficile anche così guardarsi con i suoi occhi. Ma il corpo non mente e il pene che ho tra le cosce parla per me. Per lui. Per me.
Carezzo la guancia e i riccioli. Sussurro piano “Ehi...”
La voce che sento uscire dalla bocca è la sua, non la mia. Amo la sua voce, che mi sa accarezzare in mille modi diversi.
Guardo i miei occhi, i suoi, i miei che si aprono. Il primo sguardo è smarrito. Il secondo è terrorizzato. Prova a scattare sul letto ma i polsi legati lo bloccano supino. Non riesce a parlare, ma solo a dimenarsi e a fare strani versi.
Lo prendo – mi prendo – per le spalle, cercando di calmare il panico e la sorpresa: “Tranquillo, tranquillo... sei tu vero? E io sono io, la tua bimba...”. Ansima, ha gli occhi sbarrati, la bocca aperta. “Sei tu?”
Annuisce, senza parlare, come se avesse paura di sentire la mia voce. La sua. La mia. “Ci siamo scambiati, tesoro, come nei film” gli dico, incredibilmente presente di me e della situazione assurda. Come se lo guidassi, come se fossi lui. Gli carezzo le guance, come lui fa con me. Sento che si abbandona sotto il mio tocco, come io faccio con lui. Dio, è incredibile. Sono così liscia, bianca, innocente. Eppure così audace, desiderabile, desiderata.
Guardo tra le mie cosce. Lo fa anche lui. Chissà che effetto gli fa ammirare il suo pene dalla mia prospettiva. Guardo le vene in rilievo. Con la mano libera lo sfioro. Poi guardo lui. Me. Lui.
“Tesoro...” gli dico. “È qualcosa che desideravo vagamente, e ora è realtà. E forse lo desideravi anche tu per me. Volevi che mi vedessi con i tuoi occhi, che capissi quanto io fossi bella per te”. Carezzo il pene. Lui non parla, forse ha paura di farlo con la mia voce. O forse nello scambio la voce non era prevista. Ma il suo viso è più sereno. Guarda i miei occhi, poi guarda il pene che le mie dita stanno coccolando piano.
“Forse lo sto capendo ma...” Faccio una pausa, mi avvicino a lui. A me. A lui. Poso un ginocchio sul bordo del letto. Con le dita punto il pene verso il suo viso. Il mio. Il suo. “...ma mi aiuti tesoro? Ti prego, o l'incantesimo finirà e io non ci avrò mai provato. Potrai fare di me quello che desideri, quando tutto tornerà normale”. Lo dico e non immagino che cosa potrà chiedere da me, a quale fetish nascosto mi vorrà sottoporre ricordandomi la promessa. Ma il problema è un altro. Saremmo mai tornati normali?
Soffoco il dubbio, presa da una smania che catalogo subito come molto maschile. “Apri la bocca” gli dico. Mi dico. Gli dico. La socchiude appena. Gli schiaffeggio una guancia, d'istinto: “Aprila, ho detto”. La apre. La pagherò, lo so. Ma intanto ho un sogno da realizzare. Glielo infilo in bocca. E la sensazione è strana e incredibile. Il caldo morbido della lingua carezza punti sensibili che non immaginavo esistessero. Tutt'intorno al glande, per esempio, si propagano piccole scosse elettriche che salgono lungo la mia schiena. E poi il desiderio istintivo di infilarlo più in fondo. Spingere col bacino, sentire la sua fatica e il suo disagio. Inutile, sono più brava io, penso, a usare la mia bocca. Sentire la leggera puntura dei denti che scalfiscono l'erezione. Mormorare di dolore e di piacere. “Sì, dio...”
Chiudo gli occhi. Li riapro. Mi guardo. Lo guardo. Mi guardo. Sono così eccitante quando mi concedo? Così fottutamente e inevitabilmente eccitante? Scorro con le pupille il mio corpo, come se fosse allo scanner. Guardo i peli corti e scuri tra le mie cosce. Penso che se io sto provando a essere lui, allora lui dovrebbe provare a essere me.
Sfilo il pene dalla sua bocca. Slaccio la sciarpa che mi tiene – gli tiene – insieme le caviglie, senza guardare troppo i piedi, perché detesto anche loro. Ma lui non vuole che li nasconda, mai. Prendo due nastri di raso scivolati dal letto dopo i giochi della notte. Afferro la sua gamba. La mia. La sua. La porto al petto, piegata. E con il nastro lego la caviglia e la coscia insieme. La sua adorata frogtie. Mi ricordo ancora quando mi spiegò per la prima volta quanto gli piacesse. Ho imparato tante cose da quel giorno. Lego l'altra gamba. Forzo le sue cosce a restare aperte. Torno accanto alla sua bocca.
“Aprila” gli dico. Questa volta ubbidisce subito. Poi allungo un braccio, stupendomi di come sia più lungo delle mie braccia, e porto le dita tra le cosce. Conosco questa sensazione. Calore, bagnato, profumo di sesso. Mi compiaccio per il bagnato. Mi sarei eccitata anche io a un gioco così. Mi sono eccitata anche io. E lui, io, lui, si sta prendendo cura della mia eccitazione, così come io comincio a prendermi cura della sua.
“Ti ho raccontato spesso dei miei orgasmi, tesoro” gli dico, carezzandolo con la voce come avrebbe fatto lui. “Sai quanto bene puoi fare alla tua bimba. Ora vorrei che lo provassi tu...”. La mia mano si installa tra le sue cosce. Le mie. Le sue. Il clitoride prima, disegnando cerchi, mentre la sua bocca cinge il pene e lo riempie di sensazioni dolci e forti. Poi più giù, nel bagnato. Lo penetro. Mi penetro. Lui adora che squirti. Il dito medio grande e forte scompare dentro di me. Di lui. Lo muovo e con il pollice continuo a titillare il bottoncino magico.
Geme leggermente. Adoro. Glielo dico: “Adoro quando gemi e mugoli. Anche quando lo fai con la mia voce. Adoro sapere che sei tu a succhiarmi il pene come ogni volta in cui hai succhiato la mia vagina. So quanto ami farlo. So che sai che sono io. So che non ti disgusta. Sei il mio tesoro, ami far felice la tua bimba. E io amo far felice te, mio signore”.
Aspetto di sentire quello che, a quanto dice lui, succederà inevitabilmente. I miei muscoli, i suoi, i miei, che si contraggono attorno al mio dito. Il bacino che spinge senza più controllo. Le punte dei piedi che si tendono nell'attesa dell'inevitabile. Mi faccio strada con più forza dentro di lui. Di me. Di lui. E più veloce carezzo il clitoride indurito e sensibile. So che lo è. E lui sa che lo è il pene, mentre a occhi chiusi glielo spingo più dentro, scopandogli la bocca. Dio, sì...
Poi freno la voglia e lo tiro fuori. Mi inginocchio tra le sue cosce. Lo libero dalla morsa delle mie dita. Avvicino la punta del pene. Provo a farmi strada dentro di me, di lui, di me, in modo maldestro. Ma sento l'abbraccio stretto della mia stessa vagina cingermi. È come un miracolo mostruoso. Sto scopando me stessa. La mia anima scopa il mio corpo. E intanto soddisfa l'anima e il corpo del mio Dom. Dio, il solo pensiero è orgasmico... Mi spingo dentro quasi fino in fondo. Gemo, geme di dolore. Troppo in fretta, troppo poco lubrificato. Ma dio, quell'abbraccio intorno al pene... È questo che si prova? E se ci si muove? Dio, se ci si muove...
“Scopami, tesoro, scopami...” mi scopro a dire. E lo sto dicendo a me stessa. Ci sono troppe cose da provare. Il mio culo. Il suo. Il mio. Fargli provare il dolore. Fargli provare l'ansia. Guardare la mia stessa pelle diventare rossa. Spalmarla dei miei umori come piace a lui. Ma ora voglio solo scoparmi, sentirmi mia. Fottermi senza limiti e senza freni. Gemo. Geme. Gemo. L'ultimo barlume di saggezza: tirarlo fuori. Correre verso la sua bocca in modo goffo che già quasi sgocciola. Spremergli il mio primo orgasmo maschile tra le labbra. Dio...
Geme ancora. Gemo. Geme. Lascio che lo succhi e che mi regali quei brividi di quasi fastidio che sembrano scosse, quando il seme ha smesso di uscire e la tensione scende. Con la mano torno a carezzare tra le mie cosce. Le sue. Le mie. So che manca poco. Conosco il mio corpo. E conosco la mente porcellina del mio Dom che adora lasciarsi sopraffare dalla voglia. Voglio che sappia com'è venire, ora che so com'è eiaculare. E poi accadrà quel che il nostro curioso destino incrociato vorrà.
“Ti piace tesoro? Ti piace?”
Mugola, ansima, si contorce, quasi grida. Ma non è tutto. Io lo so che cosa adora. E ora posso farlo per me. Per lui. Per me. Mi prostro tra le cosce spalancate e legate e tuffo lì in mezzo il viso, come farebbe lui. Come ha fatto lui in modo così delizioso e invitante. E poi... e poi... Sento il mio nettare sulle labbra. Lo mescolo alla saliva. Succhio e bevo, gioco con la lingua sul clitoride. E con una mano ancora bagnata, penetro curiosa e frettolosa. Sento il suo bacino spingere contro di me. Sento i muscoli della vagina stritolarmi il dito a ondate. È vicino, sono vicina, mi conosco. Lecco e succhio più veloce fino al momento in cui sento sulle mie labbra e sul mio viso l'esplosione. Ritraggo la mia mano bagnata di me. Di lui. Di me. Mentre lui spinge gemendo a ogni nuova onda di orgasmo. Dio, come sarà più bello dargli piacere e riceverlo ora che ci conosciamo ancora più da vicino. Da dentro. Mi chino su di lui. Su di me. Su di lui. Carezzo la guancia con la mano fradicia della mia voglia. Bacio le labbra. Lo guardo. Mi guardo. “Grazie...” mormoro. E chiudo gli occhi. Sperando che finisca. E che poi ricominci.
Le sinapsi che si riattivano lentamente, gli occhi che restano chiusi per non dover sopportare la luce dell’alba, la sensazione di leggerezza e sollievo dopo una notte particolarmente intensa. Tutto nella norma. O meglio, meravigliosamente fuori norma.
Non sento corde attorno ai miei polsi. Né alle mie caviglie. Eppure ricordo la loro dolce morsa. Lui deve avermi liberata mentre dormivo. Né la mia bocca sembra forzata o costretta da bavagli. Avvicino una mano alla guancia per esserne sicura, o solo per sentire gli strati appiccicosi dei nostri umori mescolati sulla mia pelle e...
Oddio. Oh cazzo. Peli. Ispidi. Barba. Sul mio viso.
Balzo sul letto. Apro gli occhi. Il tempo di abituarli alla luce e quel che vedo... non è il mio corpo. È il suo. Ma sono io ad averlo. Io dentro di lui. Scosto il lenzuolo. Sono nuda. Nudo. Non lo so più.
Il cuore batte veloce. Il pene semieretto è appoggiato sulla mia coscia. Allungo una mano, d’istinto. Lo tocco. La sensazione familiare al tatto si mischia a qualcosa di completamente nuovo, la carezza piacevole delle dita sui punti sensibili dove la pelle copre appena il glande. Conosco ogni millimetro di quel pene per averlo coccolato, accolto, adorato. E ora è qualcosa di mio.
Dio, ne ho sempre desiderato uno, per capire come ci si sente quando diventa duro, quando lo si usa per penetrare. Ho sempre sognato anche di fare l’elicottero. E così rido di una risatina isterica, dimenticandomi della situazione assurda e smettendo di chiedermi che cosa sia successo.
Ma... se io sono lui, lui dov’è? E che ne è stato del mio corpo?
Mi volto verso l’altro lato del letto. C’è qualcuno tra le lenzuola candide e stropicciate. Le braccia protese verso l’alto, i polsi legati da una sciarpa scura che si allaccia alla vecchia testiera in ferro battuto. I riccioli anarchici sparsi sul cuscino dove il viso è quasi schiacciato, forse solo per riparare gli occhi dalla luce.
Dio, sono io. E mi sto guardando da fuori. Penso alla sua frase, quella che mi ripete ossessivamente ogni volta che mi trovo brutta, o inadeguata, o insicura. “Bimba, se solo potessi guardarti con i miei occhi”, dice... Oddio, ora è quello che sto facendo. Ed è spaventoso. Miracoloso. Eccitante.
Scosto lentamente il lenzuolo per scoprire il mio corpo nudo. Il suo. Il mio.
La schiena. La linea dei fianchi che lui adora. Il sedere, che allo specchio trovo così insopportabilmente grosso, e poi lui mi sgrida. E che oggi vedo con i segni rossi delle sue mani, ricordo della notte irruenta.
Mi guardo e sento una sensazione nuova tra le mie cosce. Sbircio l’erezione che si sta ricomponendo. Dio, sono uguale a lui. Se fossi lui ora mi sveglierei, mi prenderei per i capelli, sussurrerei un “buongiorno bimba” per poi spingere la mia testa contro il pene eretto, per il pompino dell’aurora. Poi ci penso su un secondo. Ehi, io sono lui...
Sorrido al pensiero diabolico: essere lui, fino in fondo. Scendo silenziosamente dal letto. Il pene eretto oscilla libero all'aria, il glande completamente esposto, la pelle ripiegata a incorniciarlo come il bordo di cartone colorato del cono di un calippo alla fragola. Solo che questo è caldo. Caldissimo.
Giro intorno al letto. Mi guardo. Lo guardo. Mi guardo. Ho gli occhi chiusi, una specie di sorriso. Le mutandine poco lontano dalla bocca, ancora appallottolate. Me le ha sfilate, prima di lasciarmi addormentare. Ma sono rimaste lì. I seni che cadono in modo strano, maltrattati dalla forza di gravità, in quel modo che io detesto e lui adora. Dio, com'è difficile anche così guardarsi con i suoi occhi. Ma il corpo non mente e il pene che ho tra le cosce parla per me. Per lui. Per me.
Carezzo la guancia e i riccioli. Sussurro piano “Ehi...”
La voce che sento uscire dalla bocca è la sua, non la mia. Amo la sua voce, che mi sa accarezzare in mille modi diversi.
Guardo i miei occhi, i suoi, i miei che si aprono. Il primo sguardo è smarrito. Il secondo è terrorizzato. Prova a scattare sul letto ma i polsi legati lo bloccano supino. Non riesce a parlare, ma solo a dimenarsi e a fare strani versi.
Lo prendo – mi prendo – per le spalle, cercando di calmare il panico e la sorpresa: “Tranquillo, tranquillo... sei tu vero? E io sono io, la tua bimba...”. Ansima, ha gli occhi sbarrati, la bocca aperta. “Sei tu?”
Annuisce, senza parlare, come se avesse paura di sentire la mia voce. La sua. La mia. “Ci siamo scambiati, tesoro, come nei film” gli dico, incredibilmente presente di me e della situazione assurda. Come se lo guidassi, come se fossi lui. Gli carezzo le guance, come lui fa con me. Sento che si abbandona sotto il mio tocco, come io faccio con lui. Dio, è incredibile. Sono così liscia, bianca, innocente. Eppure così audace, desiderabile, desiderata.
Guardo tra le mie cosce. Lo fa anche lui. Chissà che effetto gli fa ammirare il suo pene dalla mia prospettiva. Guardo le vene in rilievo. Con la mano libera lo sfioro. Poi guardo lui. Me. Lui.
“Tesoro...” gli dico. “È qualcosa che desideravo vagamente, e ora è realtà. E forse lo desideravi anche tu per me. Volevi che mi vedessi con i tuoi occhi, che capissi quanto io fossi bella per te”. Carezzo il pene. Lui non parla, forse ha paura di farlo con la mia voce. O forse nello scambio la voce non era prevista. Ma il suo viso è più sereno. Guarda i miei occhi, poi guarda il pene che le mie dita stanno coccolando piano.
“Forse lo sto capendo ma...” Faccio una pausa, mi avvicino a lui. A me. A lui. Poso un ginocchio sul bordo del letto. Con le dita punto il pene verso il suo viso. Il mio. Il suo. “...ma mi aiuti tesoro? Ti prego, o l'incantesimo finirà e io non ci avrò mai provato. Potrai fare di me quello che desideri, quando tutto tornerà normale”. Lo dico e non immagino che cosa potrà chiedere da me, a quale fetish nascosto mi vorrà sottoporre ricordandomi la promessa. Ma il problema è un altro. Saremmo mai tornati normali?
Soffoco il dubbio, presa da una smania che catalogo subito come molto maschile. “Apri la bocca” gli dico. Mi dico. Gli dico. La socchiude appena. Gli schiaffeggio una guancia, d'istinto: “Aprila, ho detto”. La apre. La pagherò, lo so. Ma intanto ho un sogno da realizzare. Glielo infilo in bocca. E la sensazione è strana e incredibile. Il caldo morbido della lingua carezza punti sensibili che non immaginavo esistessero. Tutt'intorno al glande, per esempio, si propagano piccole scosse elettriche che salgono lungo la mia schiena. E poi il desiderio istintivo di infilarlo più in fondo. Spingere col bacino, sentire la sua fatica e il suo disagio. Inutile, sono più brava io, penso, a usare la mia bocca. Sentire la leggera puntura dei denti che scalfiscono l'erezione. Mormorare di dolore e di piacere. “Sì, dio...”
Chiudo gli occhi. Li riapro. Mi guardo. Lo guardo. Mi guardo. Sono così eccitante quando mi concedo? Così fottutamente e inevitabilmente eccitante? Scorro con le pupille il mio corpo, come se fosse allo scanner. Guardo i peli corti e scuri tra le mie cosce. Penso che se io sto provando a essere lui, allora lui dovrebbe provare a essere me.
Sfilo il pene dalla sua bocca. Slaccio la sciarpa che mi tiene – gli tiene – insieme le caviglie, senza guardare troppo i piedi, perché detesto anche loro. Ma lui non vuole che li nasconda, mai. Prendo due nastri di raso scivolati dal letto dopo i giochi della notte. Afferro la sua gamba. La mia. La sua. La porto al petto, piegata. E con il nastro lego la caviglia e la coscia insieme. La sua adorata frogtie. Mi ricordo ancora quando mi spiegò per la prima volta quanto gli piacesse. Ho imparato tante cose da quel giorno. Lego l'altra gamba. Forzo le sue cosce a restare aperte. Torno accanto alla sua bocca.
“Aprila” gli dico. Questa volta ubbidisce subito. Poi allungo un braccio, stupendomi di come sia più lungo delle mie braccia, e porto le dita tra le cosce. Conosco questa sensazione. Calore, bagnato, profumo di sesso. Mi compiaccio per il bagnato. Mi sarei eccitata anche io a un gioco così. Mi sono eccitata anche io. E lui, io, lui, si sta prendendo cura della mia eccitazione, così come io comincio a prendermi cura della sua.
“Ti ho raccontato spesso dei miei orgasmi, tesoro” gli dico, carezzandolo con la voce come avrebbe fatto lui. “Sai quanto bene puoi fare alla tua bimba. Ora vorrei che lo provassi tu...”. La mia mano si installa tra le sue cosce. Le mie. Le sue. Il clitoride prima, disegnando cerchi, mentre la sua bocca cinge il pene e lo riempie di sensazioni dolci e forti. Poi più giù, nel bagnato. Lo penetro. Mi penetro. Lui adora che squirti. Il dito medio grande e forte scompare dentro di me. Di lui. Lo muovo e con il pollice continuo a titillare il bottoncino magico.
Geme leggermente. Adoro. Glielo dico: “Adoro quando gemi e mugoli. Anche quando lo fai con la mia voce. Adoro sapere che sei tu a succhiarmi il pene come ogni volta in cui hai succhiato la mia vagina. So quanto ami farlo. So che sai che sono io. So che non ti disgusta. Sei il mio tesoro, ami far felice la tua bimba. E io amo far felice te, mio signore”.
Aspetto di sentire quello che, a quanto dice lui, succederà inevitabilmente. I miei muscoli, i suoi, i miei, che si contraggono attorno al mio dito. Il bacino che spinge senza più controllo. Le punte dei piedi che si tendono nell'attesa dell'inevitabile. Mi faccio strada con più forza dentro di lui. Di me. Di lui. E più veloce carezzo il clitoride indurito e sensibile. So che lo è. E lui sa che lo è il pene, mentre a occhi chiusi glielo spingo più dentro, scopandogli la bocca. Dio, sì...
Poi freno la voglia e lo tiro fuori. Mi inginocchio tra le sue cosce. Lo libero dalla morsa delle mie dita. Avvicino la punta del pene. Provo a farmi strada dentro di me, di lui, di me, in modo maldestro. Ma sento l'abbraccio stretto della mia stessa vagina cingermi. È come un miracolo mostruoso. Sto scopando me stessa. La mia anima scopa il mio corpo. E intanto soddisfa l'anima e il corpo del mio Dom. Dio, il solo pensiero è orgasmico... Mi spingo dentro quasi fino in fondo. Gemo, geme di dolore. Troppo in fretta, troppo poco lubrificato. Ma dio, quell'abbraccio intorno al pene... È questo che si prova? E se ci si muove? Dio, se ci si muove...
“Scopami, tesoro, scopami...” mi scopro a dire. E lo sto dicendo a me stessa. Ci sono troppe cose da provare. Il mio culo. Il suo. Il mio. Fargli provare il dolore. Fargli provare l'ansia. Guardare la mia stessa pelle diventare rossa. Spalmarla dei miei umori come piace a lui. Ma ora voglio solo scoparmi, sentirmi mia. Fottermi senza limiti e senza freni. Gemo. Geme. Gemo. L'ultimo barlume di saggezza: tirarlo fuori. Correre verso la sua bocca in modo goffo che già quasi sgocciola. Spremergli il mio primo orgasmo maschile tra le labbra. Dio...
Geme ancora. Gemo. Geme. Lascio che lo succhi e che mi regali quei brividi di quasi fastidio che sembrano scosse, quando il seme ha smesso di uscire e la tensione scende. Con la mano torno a carezzare tra le mie cosce. Le sue. Le mie. So che manca poco. Conosco il mio corpo. E conosco la mente porcellina del mio Dom che adora lasciarsi sopraffare dalla voglia. Voglio che sappia com'è venire, ora che so com'è eiaculare. E poi accadrà quel che il nostro curioso destino incrociato vorrà.
“Ti piace tesoro? Ti piace?”
Mugola, ansima, si contorce, quasi grida. Ma non è tutto. Io lo so che cosa adora. E ora posso farlo per me. Per lui. Per me. Mi prostro tra le cosce spalancate e legate e tuffo lì in mezzo il viso, come farebbe lui. Come ha fatto lui in modo così delizioso e invitante. E poi... e poi... Sento il mio nettare sulle labbra. Lo mescolo alla saliva. Succhio e bevo, gioco con la lingua sul clitoride. E con una mano ancora bagnata, penetro curiosa e frettolosa. Sento il suo bacino spingere contro di me. Sento i muscoli della vagina stritolarmi il dito a ondate. È vicino, sono vicina, mi conosco. Lecco e succhio più veloce fino al momento in cui sento sulle mie labbra e sul mio viso l'esplosione. Ritraggo la mia mano bagnata di me. Di lui. Di me. Mentre lui spinge gemendo a ogni nuova onda di orgasmo. Dio, come sarà più bello dargli piacere e riceverlo ora che ci conosciamo ancora più da vicino. Da dentro. Mi chino su di lui. Su di me. Su di lui. Carezzo la guancia con la mano fradicia della mia voglia. Bacio le labbra. Lo guardo. Mi guardo. “Grazie...” mormoro. E chiudo gli occhi. Sperando che finisca. E che poi ricominci.
LA TAVOLOZZA E LA TELA
"Allora bimba, nessun dubbio?"
Lei non rispose. Non con la voce, almeno.
Invece aprì i due bottoni più vicini al bavero del cappotto, infilò dentro una mano, prese il guinzaglio. Glielo porse.
"Bene. Nessun dubbio" disse lui, in una mano la catena color d'argento, quella che all'altro capo era attaccata al collo della sua bimba, mentre con l'altra mano premeva il tasto del citofono.
Maggie nemmeno rispose. Un ronzio, il clic della serratura azionato dal piano di sopra e poi nessun altro suono. Lui spinse il pesante portone di legno della vecchia casa ed entrò per primo, invitando lei a seguirlo con un leggero strattone al guinzaglio.
Per le scale non incontrarono nessuno, ma a lui non sarebbe importato di mostrare a occhi estranei quella scena così socialmente inaccettabile, l'ultraquarantenne calvo e con la barba sale e pepe con una giovane fanciulla che teneva alla catena come una schiava. Forse a lei sì, sarebbe importato. Ma lui le stava insegnando a vincere gli imbarazzi, a camminare con passi malfermi ma decisi sempre più lontano dalla sua zona di sicurezza, a sfidare le sue paure e i suoi limiti. Quello era uno di quei giorni.
Non ci fu bisogno di suonare il campanello. Maggie, non appena sentì i passi sulle scale, aprì uno spiraglio, controllò con la coda dell'occhio che fossero volti amici e poi spalancò la porta e le labbra in un enorme sorriso.
"Sean, vecchio porco..."
"Mia cara amica kinky, come stai?"
"Bene. Anche tu, vedo..."
"Sono qui per stare ancora meglio"
"Su, entrate"
La seguirono. Si capiva al volo che stava aspettando il loro arrivo. Aveva indossato un corpetto nero, che la fasciava magnificamente e strizzava le sue tette generose. Sean non poté fare a meno di guardarle il culo. Sotto una gonnellina scozzese decisamente troppo corta - ci avrebbe scommesso - aveva dimenticato le mutandine. Ma non aveva rinunciato al cuoio e al lattice. Il cuoio degli stivali sopra il ginocchio, con una complicatissima sequenza di lacci intrecciati. E i guanti di lattice nero che sfioravano il gomito. Era pronta per creare, decisamente. E per lasciar fluire le emozioni.
Entrarono nella stanza dei giochi. C'era un lettino da massaggi, modificato per certe necessità speciali con anelli e moschettoni in posizioni strategiche. E su un tavolo lì accanto un groviglio di corde e un contenitore sterile pieno di aghi.
"La tavolozza dell'artista" scherzò Sean, indicandolo.
"Tu però hai portato la tela" rispose Maggie, guardando la giovane schiava. "Come si chiama?"
"Ha importanza?"
"No, in effetti no. Ma spiegami come fai a trovarle così giovani. E ad avere il coraggio di portarla in giro con te"
"Sono così brutto?"
"Sei così vecchio"
"Sono un gentleman. O dovrei ricordarti che abbiamo la stessa età"
"Voglio dire che sei vecchio rispetto a lei. Quanti anni hai, ragazzina?"
"Falle a me le domande. Ne ha 21"
"Cazzo, potrebbe essere tua figlia"
"Oppure la tua"
"Io non ho figli. Solo nipoti con perversioni"
"Beh, adotta anche lei allora"
Maggie rise, e mentre lo faceva il suo seno sobbalzò morbido e sensuale dai bordi del corpetto.
"Spogliati, ragazzina" ordinò.
Lei diede un'occhiata a Sean, cercando un segno di assenso. Sean mosse appena un sopracciglio e sorrise. E lei, pronta, cominciò a sfilarsi il cappotto, lasciandolo su una sedia lì accanto.
Si levò i vestiti come dal medico, veloce e intimidita. Sean la guardava: "Quello che lei ti dice, è come se te lo dicessi io. Oggi diventerai arte ed emozione, lo sai?"
Ormai nuda, la giovane schiava annuì, tenendo gli occhi bassi.
"Guarda com'è bianca..." disse Maggie guardandola dalla testa ai piedi, assorta come davanti a un'opera d'arte.
"È la sua carnagione" disse Sean.
"Bianca, come la tela di un pittore" aggiunse Maggie, con gli occhi che brillavano.
"Allora è perfetta"
"Su, sdraiati qui" intimò la donna, con fermezza ma anche con una certa dolcezza, carezzando il lettino da massaggi. "Pancia in su, da brava"
Sean se le coccolava col lo sguardo, tutte e due. Il desiderio di Maggie, la paura della sua schiava, ormai fuori dalla sua zona di sicurezza, eppure ancora pronta a dargli fiducia in quella impresa che sembrava assurda.
Maggie prese le corde e cominciò a intrecciarle attorno ai polsi della ragazza, annodandoli prima uno e poi l'altro e poi legandoli in modo che non potesse più muovere le braccia.
"Sei mai stata legata?". La giovane schiava annuì.
"Da quello lì? Guarda che non è mica capace... Se vuoi qualcosa di speciale torna da me". Maggie guardò Sean, che aveva aggrottato le sopracciglia. "Ok, fatti portare di nuovo da me. Non venire da sola..."
"Così va meglio" disse Sean, ridendo.
Maggie le carezzò i capelli, poi il collo. Poi la mano scese sui seni, con il polpastrello che tracciava linee immaginarie. E lo stesso fece sulla pancia. Era come una pittrice. Il quadro era già nella sua testa, doveva solo prendere i pennelli e i colori e stenderli sulla tela. Sean pensò di essere fortunato: si sentiva testimone di una creazione, ed era estremamente emozionante.
Maggie smise di disegnare nella sua testa e legò strette anche le caviglie.
"È importante che sia immobile?"
"Molto. E siccome è la sua prima volta, preferisco non chiederle di stare ferma. Potrebbe non riuscirci..."
Maggie smise di parlare e guardò la ragazza: "Lo sai, vero, che cosa sta per succedere?"
La schiava annuì.
"Hai paura?"
Annuì di nuovo.
"È normale, ma ora sei qui. E sarai il mio piccolo capolavoro"
"Maggie, forse è il caso di bendarla..." disse Sean.
"Bendarla no, ma non vorrei che gridasse troppo. Sai, i vicini..."
"Avrai una ball gag, no?"
"Una? Ne ho mezzo cassetto... Ed è una buona idea"
Maggie frugò per un pochino dentro un mobile e tirò fuori una pallina rossa saldata a una cinghia di cuoio. "Lo faccio per te, ragazzina. Lo capisci?"
La schiava fece sì con la testa. E Maggie la imbavagliò con delicata lentezza.
"Lo sai che adoro la bava che scende lungo le guance, Maggie?"
"Lo so, vecchio porcellone... E le lacrime che scendono dagli occhi? È quasi un peccato che la tua schiavetta abbia un trucco così leggero".
"Mi piace tutto quello che è bagnato. Ma forse te lo ricordi anche tu..."
"Non svelare i nostri segreti, che mi deconcentri"
Sean tacque. Maggie prese dal tavolino un paio di guanti da sala operatoria e li infilò sopra i guanti neri di lattice. Era il momento.
"Cominciamo da qui" disse, pizzicandole piano un capezzolo. La schiavetta soffiò aria dal naso, come un puledrino ribelle. Maggie sorrise. E prese il primo ago. Con il dito misurò una distanza dall'areola color delle fragole. Poi prese un sottile lembo di pelle del seno tra due dita: "Ora sentirai l'ago diventare parte di te, ragazzina. Accoglilo, rendilo tuo".
La ragazza mugolò. Paura, forse. Ansia, certamente. "Tranquilla, piccola, tranquilla..." disse Sean carezzandole il collo di un piede.
Poi l'ago la penetrò. Leggero, quasi soave. Un impercettibile buco nella pelle e un altro, per uscire poco lontano. Poi a riposo, docilmente appoggiato sulla pelle del seno.
"Tutto bene, ragazzina?". Mugolava, senza riuscire a smettere. Una goccia sgorgò dal suo occhio. "Sei bravissima. E bellissima. Non avere paura".
"Lei è un'infermiera, sai?" aggiunse Sean. "Sa il fatto suo".
La giovane schiava si calmò. E un secondo ago si aggiunse al primo, alla distanza giusta, con la punta che indicava il capezzolo. Stavolta il respiro sembrava meno affannoso. Il seno trafitto come un puntaspilli ondeggiava appena, mentre lei riprendeva fiato dopo averlo trattenuto nel momento dell'inserimento.
"Serve pazienza, pazienza..." recitava Maggie come un mantra, prendendo un ago dopo l'altro, infilandolo nella pelle con dolcezza e sapienza. E lasciando alla ragazza il tempo di sciogliere l'ansia tra una puntura e l'altra.
Pian piano il disegno si manifestava: un cerchio perfetto a decorare il seno sinistro della giovane schiava, grande ma non enorme, sodo come si conveniva alla sua età. E punteggiato di scintillanti aculei d'acciaio e di coni di plastica blu, la base di ogni ago.
"Sembra la luna, che si libera dietro una nuvola fino a diventare un cerchio perfetto" disse Sean, nei pantaloni un'inattesa erezione, nell'anima un'emozione intensa.
Maggie non rispose. Era lontana dal mondo. Era un tutt'uno con gli aghi, con la pelle, con la sua opera d'arte. "Stai bene, ragazzina?" disse dopo lunghissimi minuti, prima di infilare l'ultimo ago, a completare il disegno. La giovane annuì, gli occhi umidi ma il respiro finalmente calmo.
Poi si voltò verso Sean: "Sente il dolore leggero di ogni puntura" gli disse. "Ma la scossa di quel dolore la purifica. E si mescola all'emozione di vedere il suo corpo trasformarsi in un disegno".
"Chissà com'è la sensazione di quella puntura..." si domandò Sean.
"Togliti la camicia" lo sorprese lei.
Lui lo fece, un bottone dopo l'altro, quasi con urgenza. Quando fu a torso nudo, Maggie lo avvicinò al lettino, in un punto che fosse ben visibile agli occhi della ragazza. Poi gli carezzò il petto, con i guanti di lattice ancora indosso. Prese un ago, pizzicò un lembo sottile di pelle, proprio vicino al capezzolo. E lo infilò nella sua carne. Sean chiuse gli occhi e si morse il labbro inferiore. Sentì la scossa, il bruciore. E insieme una strana emozione. Ma lui non era la tela. E Maggie rise forte, quando l'ago fu infilato: "Dio, che emozione. Sforacchiare un Dom..."
"Se voglio imparare, devo sapere che cosa si prova, amichetta mia"
"Non hai mai voluto"
"Mai dire mai". E mentre lo disse la afferrò e la baciò sulle labbra, scavandoci in mezzo con la lingua. Voleva sentire il suo piercing. E lo sentì.
"Su, basta distrarsi, porcellone" disse Maggie, staccandosi e incollando gli occhi sul suo capolavoro incompiuto. Carezzò la pancia della ragazza. Poi si voltò verso il tavolino. Sotto un telo, svelò una serie di candele colorate e un accendino. "Alla mia opera serve colore. E calore" sentenziò, accendendo la candela viola e quella fucsia.
Maggie tornò nel suo mondo in cui non c'era spazio per nessun altro. Fece ondeggiare la fiamma della candela, per far sciogliere la cera.
"Sei pronta, ragazzina?". La ragazzina non parlò, tenendole gli occhi addosso.
La prima goccia cadde, incandescente, su uno degli aghi infilati nella pelle. Il metallo si scaldò e moltiplicò la sensazione sulle terminazioni nervose della schiava, che emise un mugolio acuto. Era in quella terra di mezzo tra dolore e piacere. Era là che Maggie la voleva portare. Non era solo arte da vedere, era anche una performance. La vista, l'udito, le sensazioni, le emozioni concrete. Come le onde di calore che a ogni goccia di cera scuotevano il corpo della ragazza.
"Dio, è meraviglioso..." si lasciò sfuggire Sean.
Maggie si voltò, uscita per un istante dalla sua trance. E sorrise all'amico. "Vieni. Puoi toccarla".
Sean si avvicinò, le carezzò una gamba, con una mano grata e delicata. L'audacia della sua giovane schiava gli stava regalando un'emozione intensa, da testimone privilegiato.
"Ho detto che puoi toccarla, scemo..."
"La sto toccando"
"Ti devo spiegare tutto? Toccala. Lo sai che è bagnata, vero?"
Sean sorrise. E lasciò che la mano salisse lentamente dalla coscia fino alla vagina. Sì, era bagnata.
"Vedi che ho sempre ragione?" disse Maggie, continuando a disegnare la pelle della giovane schiava con le gocce di cera colorata. "Su, regalale anche tu un po' di emozioni..."
Sean entrò anche lui in una specie di trance. La penetrò con un dito, solleticando con il pollice il clitoride. Ora poteva solo immaginare l'accozzaglia di emozioni che scuotevano la sua schiavetta: il piacere, il dolore, il calore, la sensazione di essere diventata arte, la sensazione contrastante di essere considerata come un oggetto da plasmare...
Maggie e Sean tacevano e gli unici suoni nella stanza erano i gemiti della ragazza. Sempre più frequenti, sempre più intensi, fino a diventare un suono animalesco quando, dopo pochissimo tempo, un orgasmo la percorse come un'onda alta e possente, bagnandole l'anima e non solo la figa.
"Dio come sei sexy quando fai venire una ragazza..." disse Maggie voltandosi verso di lui, con una luce negli occhi.
"Vieni a dirmelo da vicino" rispose lui.
Maggie si avvicinò davvero, posando le candele ancora accese sul tavolino e lasciando per un attimo da sola la sua opera d'arte. "Dio come sei sexy con un ago infilato accanto al capezzolo".
Sean le afferrò una mano e la portò di scatto sul rilievo del suo cazzo duro: "In effetti la situazione in questa stanza è sexy, non trovi?"
Maggie non disse una parola e con l'altra mano si aiutò per slacciargli la cintura e sbottonargli i pantaloni. "Non qui" reagì Sean afferrandola per i capelli. La trascinò quasi, in modo da essere più vicino alla sua schiava e al lettino su cui era legata.
"Ecco, qui" disse e tirandola verso il basso con il ciuffo di capelli in pugno la fece inginocchiare.
Maggie si leccò le labbra, scoprendo per un istante la pallina brillante del piercing. Finì di slacciargli i pantaloni. Li abbassò quanto bastava. E con una mano guidò il cazzo nella sua bocca.
"Fare l'artista mette appetito, amica kinky?" le disse, mentre con una mano cercava il guinzaglio della sua schiava, per tenerlo nel pugno. Quando lo ebbe trovato e lo strinse, sospirò guardando la scena attorno a lui. L'artista degli aghi che gli stava succhiando il cazzo ingoiandolo con impazienza e sete fino alla base, mentre lui la teneva in pugno stringendo una ciocca di capelli. La sua giovane sottomessa trasformata in arte vivente con aghi e gocce di cera, ancora stordita dalle emozioni e da un orgasmo che le era stato donato con gioia generosa, mentre lui la teneva in pugno stringendo il guinzaglio.
Non è forse così la perfezione? Non è forse così l'arte?
Lei non rispose. Non con la voce, almeno.
Invece aprì i due bottoni più vicini al bavero del cappotto, infilò dentro una mano, prese il guinzaglio. Glielo porse.
"Bene. Nessun dubbio" disse lui, in una mano la catena color d'argento, quella che all'altro capo era attaccata al collo della sua bimba, mentre con l'altra mano premeva il tasto del citofono.
Maggie nemmeno rispose. Un ronzio, il clic della serratura azionato dal piano di sopra e poi nessun altro suono. Lui spinse il pesante portone di legno della vecchia casa ed entrò per primo, invitando lei a seguirlo con un leggero strattone al guinzaglio.
Per le scale non incontrarono nessuno, ma a lui non sarebbe importato di mostrare a occhi estranei quella scena così socialmente inaccettabile, l'ultraquarantenne calvo e con la barba sale e pepe con una giovane fanciulla che teneva alla catena come una schiava. Forse a lei sì, sarebbe importato. Ma lui le stava insegnando a vincere gli imbarazzi, a camminare con passi malfermi ma decisi sempre più lontano dalla sua zona di sicurezza, a sfidare le sue paure e i suoi limiti. Quello era uno di quei giorni.
Non ci fu bisogno di suonare il campanello. Maggie, non appena sentì i passi sulle scale, aprì uno spiraglio, controllò con la coda dell'occhio che fossero volti amici e poi spalancò la porta e le labbra in un enorme sorriso.
"Sean, vecchio porco..."
"Mia cara amica kinky, come stai?"
"Bene. Anche tu, vedo..."
"Sono qui per stare ancora meglio"
"Su, entrate"
La seguirono. Si capiva al volo che stava aspettando il loro arrivo. Aveva indossato un corpetto nero, che la fasciava magnificamente e strizzava le sue tette generose. Sean non poté fare a meno di guardarle il culo. Sotto una gonnellina scozzese decisamente troppo corta - ci avrebbe scommesso - aveva dimenticato le mutandine. Ma non aveva rinunciato al cuoio e al lattice. Il cuoio degli stivali sopra il ginocchio, con una complicatissima sequenza di lacci intrecciati. E i guanti di lattice nero che sfioravano il gomito. Era pronta per creare, decisamente. E per lasciar fluire le emozioni.
Entrarono nella stanza dei giochi. C'era un lettino da massaggi, modificato per certe necessità speciali con anelli e moschettoni in posizioni strategiche. E su un tavolo lì accanto un groviglio di corde e un contenitore sterile pieno di aghi.
"La tavolozza dell'artista" scherzò Sean, indicandolo.
"Tu però hai portato la tela" rispose Maggie, guardando la giovane schiava. "Come si chiama?"
"Ha importanza?"
"No, in effetti no. Ma spiegami come fai a trovarle così giovani. E ad avere il coraggio di portarla in giro con te"
"Sono così brutto?"
"Sei così vecchio"
"Sono un gentleman. O dovrei ricordarti che abbiamo la stessa età"
"Voglio dire che sei vecchio rispetto a lei. Quanti anni hai, ragazzina?"
"Falle a me le domande. Ne ha 21"
"Cazzo, potrebbe essere tua figlia"
"Oppure la tua"
"Io non ho figli. Solo nipoti con perversioni"
"Beh, adotta anche lei allora"
Maggie rise, e mentre lo faceva il suo seno sobbalzò morbido e sensuale dai bordi del corpetto.
"Spogliati, ragazzina" ordinò.
Lei diede un'occhiata a Sean, cercando un segno di assenso. Sean mosse appena un sopracciglio e sorrise. E lei, pronta, cominciò a sfilarsi il cappotto, lasciandolo su una sedia lì accanto.
Si levò i vestiti come dal medico, veloce e intimidita. Sean la guardava: "Quello che lei ti dice, è come se te lo dicessi io. Oggi diventerai arte ed emozione, lo sai?"
Ormai nuda, la giovane schiava annuì, tenendo gli occhi bassi.
"Guarda com'è bianca..." disse Maggie guardandola dalla testa ai piedi, assorta come davanti a un'opera d'arte.
"È la sua carnagione" disse Sean.
"Bianca, come la tela di un pittore" aggiunse Maggie, con gli occhi che brillavano.
"Allora è perfetta"
"Su, sdraiati qui" intimò la donna, con fermezza ma anche con una certa dolcezza, carezzando il lettino da massaggi. "Pancia in su, da brava"
Sean se le coccolava col lo sguardo, tutte e due. Il desiderio di Maggie, la paura della sua schiava, ormai fuori dalla sua zona di sicurezza, eppure ancora pronta a dargli fiducia in quella impresa che sembrava assurda.
Maggie prese le corde e cominciò a intrecciarle attorno ai polsi della ragazza, annodandoli prima uno e poi l'altro e poi legandoli in modo che non potesse più muovere le braccia.
"Sei mai stata legata?". La giovane schiava annuì.
"Da quello lì? Guarda che non è mica capace... Se vuoi qualcosa di speciale torna da me". Maggie guardò Sean, che aveva aggrottato le sopracciglia. "Ok, fatti portare di nuovo da me. Non venire da sola..."
"Così va meglio" disse Sean, ridendo.
Maggie le carezzò i capelli, poi il collo. Poi la mano scese sui seni, con il polpastrello che tracciava linee immaginarie. E lo stesso fece sulla pancia. Era come una pittrice. Il quadro era già nella sua testa, doveva solo prendere i pennelli e i colori e stenderli sulla tela. Sean pensò di essere fortunato: si sentiva testimone di una creazione, ed era estremamente emozionante.
Maggie smise di disegnare nella sua testa e legò strette anche le caviglie.
"È importante che sia immobile?"
"Molto. E siccome è la sua prima volta, preferisco non chiederle di stare ferma. Potrebbe non riuscirci..."
Maggie smise di parlare e guardò la ragazza: "Lo sai, vero, che cosa sta per succedere?"
La schiava annuì.
"Hai paura?"
Annuì di nuovo.
"È normale, ma ora sei qui. E sarai il mio piccolo capolavoro"
"Maggie, forse è il caso di bendarla..." disse Sean.
"Bendarla no, ma non vorrei che gridasse troppo. Sai, i vicini..."
"Avrai una ball gag, no?"
"Una? Ne ho mezzo cassetto... Ed è una buona idea"
Maggie frugò per un pochino dentro un mobile e tirò fuori una pallina rossa saldata a una cinghia di cuoio. "Lo faccio per te, ragazzina. Lo capisci?"
La schiava fece sì con la testa. E Maggie la imbavagliò con delicata lentezza.
"Lo sai che adoro la bava che scende lungo le guance, Maggie?"
"Lo so, vecchio porcellone... E le lacrime che scendono dagli occhi? È quasi un peccato che la tua schiavetta abbia un trucco così leggero".
"Mi piace tutto quello che è bagnato. Ma forse te lo ricordi anche tu..."
"Non svelare i nostri segreti, che mi deconcentri"
Sean tacque. Maggie prese dal tavolino un paio di guanti da sala operatoria e li infilò sopra i guanti neri di lattice. Era il momento.
"Cominciamo da qui" disse, pizzicandole piano un capezzolo. La schiavetta soffiò aria dal naso, come un puledrino ribelle. Maggie sorrise. E prese il primo ago. Con il dito misurò una distanza dall'areola color delle fragole. Poi prese un sottile lembo di pelle del seno tra due dita: "Ora sentirai l'ago diventare parte di te, ragazzina. Accoglilo, rendilo tuo".
La ragazza mugolò. Paura, forse. Ansia, certamente. "Tranquilla, piccola, tranquilla..." disse Sean carezzandole il collo di un piede.
Poi l'ago la penetrò. Leggero, quasi soave. Un impercettibile buco nella pelle e un altro, per uscire poco lontano. Poi a riposo, docilmente appoggiato sulla pelle del seno.
"Tutto bene, ragazzina?". Mugolava, senza riuscire a smettere. Una goccia sgorgò dal suo occhio. "Sei bravissima. E bellissima. Non avere paura".
"Lei è un'infermiera, sai?" aggiunse Sean. "Sa il fatto suo".
La giovane schiava si calmò. E un secondo ago si aggiunse al primo, alla distanza giusta, con la punta che indicava il capezzolo. Stavolta il respiro sembrava meno affannoso. Il seno trafitto come un puntaspilli ondeggiava appena, mentre lei riprendeva fiato dopo averlo trattenuto nel momento dell'inserimento.
"Serve pazienza, pazienza..." recitava Maggie come un mantra, prendendo un ago dopo l'altro, infilandolo nella pelle con dolcezza e sapienza. E lasciando alla ragazza il tempo di sciogliere l'ansia tra una puntura e l'altra.
Pian piano il disegno si manifestava: un cerchio perfetto a decorare il seno sinistro della giovane schiava, grande ma non enorme, sodo come si conveniva alla sua età. E punteggiato di scintillanti aculei d'acciaio e di coni di plastica blu, la base di ogni ago.
"Sembra la luna, che si libera dietro una nuvola fino a diventare un cerchio perfetto" disse Sean, nei pantaloni un'inattesa erezione, nell'anima un'emozione intensa.
Maggie non rispose. Era lontana dal mondo. Era un tutt'uno con gli aghi, con la pelle, con la sua opera d'arte. "Stai bene, ragazzina?" disse dopo lunghissimi minuti, prima di infilare l'ultimo ago, a completare il disegno. La giovane annuì, gli occhi umidi ma il respiro finalmente calmo.
Poi si voltò verso Sean: "Sente il dolore leggero di ogni puntura" gli disse. "Ma la scossa di quel dolore la purifica. E si mescola all'emozione di vedere il suo corpo trasformarsi in un disegno".
"Chissà com'è la sensazione di quella puntura..." si domandò Sean.
"Togliti la camicia" lo sorprese lei.
Lui lo fece, un bottone dopo l'altro, quasi con urgenza. Quando fu a torso nudo, Maggie lo avvicinò al lettino, in un punto che fosse ben visibile agli occhi della ragazza. Poi gli carezzò il petto, con i guanti di lattice ancora indosso. Prese un ago, pizzicò un lembo sottile di pelle, proprio vicino al capezzolo. E lo infilò nella sua carne. Sean chiuse gli occhi e si morse il labbro inferiore. Sentì la scossa, il bruciore. E insieme una strana emozione. Ma lui non era la tela. E Maggie rise forte, quando l'ago fu infilato: "Dio, che emozione. Sforacchiare un Dom..."
"Se voglio imparare, devo sapere che cosa si prova, amichetta mia"
"Non hai mai voluto"
"Mai dire mai". E mentre lo disse la afferrò e la baciò sulle labbra, scavandoci in mezzo con la lingua. Voleva sentire il suo piercing. E lo sentì.
"Su, basta distrarsi, porcellone" disse Maggie, staccandosi e incollando gli occhi sul suo capolavoro incompiuto. Carezzò la pancia della ragazza. Poi si voltò verso il tavolino. Sotto un telo, svelò una serie di candele colorate e un accendino. "Alla mia opera serve colore. E calore" sentenziò, accendendo la candela viola e quella fucsia.
Maggie tornò nel suo mondo in cui non c'era spazio per nessun altro. Fece ondeggiare la fiamma della candela, per far sciogliere la cera.
"Sei pronta, ragazzina?". La ragazzina non parlò, tenendole gli occhi addosso.
La prima goccia cadde, incandescente, su uno degli aghi infilati nella pelle. Il metallo si scaldò e moltiplicò la sensazione sulle terminazioni nervose della schiava, che emise un mugolio acuto. Era in quella terra di mezzo tra dolore e piacere. Era là che Maggie la voleva portare. Non era solo arte da vedere, era anche una performance. La vista, l'udito, le sensazioni, le emozioni concrete. Come le onde di calore che a ogni goccia di cera scuotevano il corpo della ragazza.
"Dio, è meraviglioso..." si lasciò sfuggire Sean.
Maggie si voltò, uscita per un istante dalla sua trance. E sorrise all'amico. "Vieni. Puoi toccarla".
Sean si avvicinò, le carezzò una gamba, con una mano grata e delicata. L'audacia della sua giovane schiava gli stava regalando un'emozione intensa, da testimone privilegiato.
"Ho detto che puoi toccarla, scemo..."
"La sto toccando"
"Ti devo spiegare tutto? Toccala. Lo sai che è bagnata, vero?"
Sean sorrise. E lasciò che la mano salisse lentamente dalla coscia fino alla vagina. Sì, era bagnata.
"Vedi che ho sempre ragione?" disse Maggie, continuando a disegnare la pelle della giovane schiava con le gocce di cera colorata. "Su, regalale anche tu un po' di emozioni..."
Sean entrò anche lui in una specie di trance. La penetrò con un dito, solleticando con il pollice il clitoride. Ora poteva solo immaginare l'accozzaglia di emozioni che scuotevano la sua schiavetta: il piacere, il dolore, il calore, la sensazione di essere diventata arte, la sensazione contrastante di essere considerata come un oggetto da plasmare...
Maggie e Sean tacevano e gli unici suoni nella stanza erano i gemiti della ragazza. Sempre più frequenti, sempre più intensi, fino a diventare un suono animalesco quando, dopo pochissimo tempo, un orgasmo la percorse come un'onda alta e possente, bagnandole l'anima e non solo la figa.
"Dio come sei sexy quando fai venire una ragazza..." disse Maggie voltandosi verso di lui, con una luce negli occhi.
"Vieni a dirmelo da vicino" rispose lui.
Maggie si avvicinò davvero, posando le candele ancora accese sul tavolino e lasciando per un attimo da sola la sua opera d'arte. "Dio come sei sexy con un ago infilato accanto al capezzolo".
Sean le afferrò una mano e la portò di scatto sul rilievo del suo cazzo duro: "In effetti la situazione in questa stanza è sexy, non trovi?"
Maggie non disse una parola e con l'altra mano si aiutò per slacciargli la cintura e sbottonargli i pantaloni. "Non qui" reagì Sean afferrandola per i capelli. La trascinò quasi, in modo da essere più vicino alla sua schiava e al lettino su cui era legata.
"Ecco, qui" disse e tirandola verso il basso con il ciuffo di capelli in pugno la fece inginocchiare.
Maggie si leccò le labbra, scoprendo per un istante la pallina brillante del piercing. Finì di slacciargli i pantaloni. Li abbassò quanto bastava. E con una mano guidò il cazzo nella sua bocca.
"Fare l'artista mette appetito, amica kinky?" le disse, mentre con una mano cercava il guinzaglio della sua schiava, per tenerlo nel pugno. Quando lo ebbe trovato e lo strinse, sospirò guardando la scena attorno a lui. L'artista degli aghi che gli stava succhiando il cazzo ingoiandolo con impazienza e sete fino alla base, mentre lui la teneva in pugno stringendo una ciocca di capelli. La sua giovane sottomessa trasformata in arte vivente con aghi e gocce di cera, ancora stordita dalle emozioni e da un orgasmo che le era stato donato con gioia generosa, mentre lui la teneva in pugno stringendo il guinzaglio.
Non è forse così la perfezione? Non è forse così l'arte?
IL PORTIERE
Voi non mi conoscete.
Non volete conoscermi.
Meglio, sperate di non conoscermi.
Avete fretta quando mi sfilate davanti, io nel gabbiotto della reception che sembra un casello dell’autostrada e voi chiusi dentro la vostra auto.
Tutto quello che volete da me è che io apra la sbarra e vi dia accesso al vostro simulacro di paradiso: “Può parcheggiare davanti alla stanza, all’interno troverà il pulsante per chiudere la tenda”. E mentre ve lo ripeto, impersonale come un nastro registrato, sfioro appena i vostri occhi quando, dal finestrino, mi passate il documento che vi restituirò all’uscita. E voi affidate il vostro nome e un vostro segreto a me, un anonimo impiegato di un motel cresciuto come un fungo con le sue siepi alte in mezzo a una zona industriale.
Invece io vi conosco.
Tranquilli, non per nome. Quelli li dimentico subito, il tempo di riporre in un cassetto la vostra carta d’identità. Ma i visi, gli sguardi sfuggenti, il desiderio e la tempesta dell'anima di ognuno, quelli mi restano stampati nella testa.
Forse succede perché io so leggervi dentro. È uno dei pochi doni che madre natura mi ha concesso. Sono timido, arrossisco per nulla, la mia voce è stridula e sgradevole, i miei capelli cadono lasciando in balia del mondo il mio cuoio capelluto troppo lucido, perché non riesco a controllare la sudorazione. Dimenticavo, sono anche grasso. Il mio capo mi sgrida perché troppo spesso deve ricomprare le camicie bianche della divisa, sempre di una taglia in più. E nonostante questo tirano sulla pancia. Disgustosamente.
Vivo da solo, nel miniappartamento di fianco a quello di mio padre, troppo vicino alla ferrovia per essere tranquillo. Ma io mi isolo dal mondo e dai miei pensieri lo stesso. Anche Elwood Blues riusciva a dormire e ad ascoltare musica anche se viveva accanto ai binari.
Una vita invidiabile, vero? Ma io non metto su dischi di John Lee Hooker. Quando voglio stare in pace, tra un Frecciabianca e un merci, penso a voi. E vi rivedo. Non tutti. Solo quelli che mando nella stanza speciale.
È il mio piccolo potere di condizionare il destino. Ed è il mio piccolo divertimento, forse lo scopo stesso della mia timida vita, vivere attraverso di voi quello che io non proverò mai. Scelgo quelli tra voi che se lo meritano - perché in questo io non sbaglio mai - e li destino alla 117. È lì che ho installato la telecamera nascosta, quando il capo mi ha chiesto di dare un’occhiata al cavo della pay tv porno che faceva i capricci. Vai tu che sei elettrotecnico, mi disse. Ma togliti la camicia così poi non torni dai clienti sporco. Obbedii senza discutere. Non è nel mio carattere. Solo gli dissi, bussando nel suo ufficio, con la felpa nera di Star Wars presa all’Oviesse completamente fuori posto insieme ai pantaloni eleganti della divisa, che avevo bisogno di un paio di pezzi di ricambio per risolvere il problema.
Mi mandò al negozio, compiaciuto della mia intraprendenza e del fatto che mi fossi levato davvero la camicia. Con i miei soldi comprai anche una costosissima micro-videocamera, tanto non spendo mai nulla per me a parte affitto, cibo e bollette. La nascosi bene e la collegai, attraverso una piccola deviazione della rete interna, a un hard disk. Ogni giorno o due, me lo prendo e lo porto a casa per scaricare i video. Peccato per l’audio. È raro che io senta le parole. Ma almeno i gemiti e i mugolii sì, quelli li registra. E le coppie che scelgo si fanno sempre sentire.
Lo so, adesso siete preoccupati.
Ripercorrete l’archivio della vostra memoria e cercate di ricordare se mai io vi abbia mandato nella 117.
Tranquilli, se anche fosse, quei video non sono destinati a nessun altro se non a me. Non vi rivedrete mai su YouPorn. E soprattutto non vi vedranno le vostre mogli. Perché anche loro - sapete - cercano le cose sconce su internet. Di più: forse qualcuna di loro è in un altro dei miei video. Quei filmati li conservo come fareste voi, con la stessa cura e la stessa riservatezza. Oserei dire che ne sono geloso. Del resto sono la mia vita attraverso la vostra, giusto? E poi sono certo che a qualcuno di voi piacerebbe sapere che avete i miei occhi addosso durante la vostra scopata clandestina.
Vi scelgo anche per questo, per la stanza 117, perché - ricordate? - io vi leggo dentro. Riconosco gli sposati e i fidanzati anche se nascondono la mano sinistra. E anche se la mostrano ma solo perché hanno sfilato la fede. Riconosco quelli che non lo avevano mai fatto prima, perché emanano ansia insieme all’eccitazione. Riconosco quelli che hanno pagato per avere compagnia. In loro l’emozione è poco più di una fiammella di desiderio, scelta e comprata come si farebbe all’Ikea, sfogliando il catalogo e poi portando a casa quella poltrona dal design accattivante di cui però non ricorderete mai il nome.
Ci vuole di più di una tenue fiammella e di un’emozione acerba per andare nella 117. È raro che a qualcuno di loro conceda questo privilegio, se così si può chiamare l’inconsapevole ingresso nella mia vita. Lo so bene che il commercialista brizzolato e la escort professionista sono lì apposta per fare evoluzioni speciali, posizioni senza limiti, tutto quello che la signora non concede più da anni - o forse non ha mai concesso - e lui cerca altrove, a prezzo di mercato. È come se li vedessi e sentissi i suoi gemiti finti mentre lui le penetra il culo avvolto in un preservativo ritardante per lui e stimolante per lei. Niente sugo. Niente emozione. Non m’interessa. Non vorrei vivere quella vita lì.
Se volete capire quello che intendo, ascoltate questa. Arriva questa ragazza, da sola, sguardo basso ma non troppo. Non era per me che era in ansia. “Aspetto una persona che arriverà fra poco” mi dice. “A che numero di stanza gli dico di venire?”.
“La 117” rispondo io passandole la chiave magnetica.
Perché? Dio, ragazzi, non immaginate l’elettricità che usciva da quel finestrino. Lei desiderava quel momento, quell’incontro. Non so come, non so perché. Ma era così maledettamente evidente. Poi è arrivato lui. Più calmo all’apparenza, la fede al dito della mano con cui mi ha allungato il documento. Ma negli occhi leggevi i numerini di un conto alla rovescia che durava da troppo tempo e che finalmente era vicino allo zero.
Non vedevo l’ora di mettere le mani sull’hard disk, alla fine del mio turno. E sapete qual è stata la mia parte preferita? No, non lui tuffato tra le sue cosce a leccarla o lei che fa sparire il cazzo nella sua bocca e che poco dopo si dimena per farsi scopare più forte mentre lui la penetra. La parte migliore è quando lei è ancora da sola, quando si toglie i vestiti e sparisce in bagno, sbirciando ogni tanto il cellulare forse in attesa dei suoi messaggi e scrivendo frenetica di quando in quando. Poi torna, con l’asciugamano bianco intorno al corpo, fruga nella borsa e con attenzione si prepara davanti allo specchio. Baby doll rosso fuoco, niente reggiseno, perizoma con un cuoricino disegnato, autoreggenti bianche, perfino una giarrettiera, e scarpe con il tacco rosse e lucide. E poi il suo viso quando, dopo un ultimo messaggio, si sdraia sul letto come in quella locandina del film da oscar in cui la protagonista è circondata di petali di rosa. Si sdraia e aspetta, sospirando e sorridendo, sentendosi bella, perfetta, desiderabile, desiderata.
Ecco, mi capite adesso? Capite perché solo qualcuno di voi va alla 117? Allora vi dico qualcosa che non posso dirvi quando vi avvicinate al mio gabbiotto. Ascoltatemi, vi prego, fatelo per me ma soprattutto per voi: non limitatevi a scopare. Emozionatevi. Renderete migliore anche la mia timida vita.
Non volete conoscermi.
Meglio, sperate di non conoscermi.
Avete fretta quando mi sfilate davanti, io nel gabbiotto della reception che sembra un casello dell’autostrada e voi chiusi dentro la vostra auto.
Tutto quello che volete da me è che io apra la sbarra e vi dia accesso al vostro simulacro di paradiso: “Può parcheggiare davanti alla stanza, all’interno troverà il pulsante per chiudere la tenda”. E mentre ve lo ripeto, impersonale come un nastro registrato, sfioro appena i vostri occhi quando, dal finestrino, mi passate il documento che vi restituirò all’uscita. E voi affidate il vostro nome e un vostro segreto a me, un anonimo impiegato di un motel cresciuto come un fungo con le sue siepi alte in mezzo a una zona industriale.
Invece io vi conosco.
Tranquilli, non per nome. Quelli li dimentico subito, il tempo di riporre in un cassetto la vostra carta d’identità. Ma i visi, gli sguardi sfuggenti, il desiderio e la tempesta dell'anima di ognuno, quelli mi restano stampati nella testa.
Forse succede perché io so leggervi dentro. È uno dei pochi doni che madre natura mi ha concesso. Sono timido, arrossisco per nulla, la mia voce è stridula e sgradevole, i miei capelli cadono lasciando in balia del mondo il mio cuoio capelluto troppo lucido, perché non riesco a controllare la sudorazione. Dimenticavo, sono anche grasso. Il mio capo mi sgrida perché troppo spesso deve ricomprare le camicie bianche della divisa, sempre di una taglia in più. E nonostante questo tirano sulla pancia. Disgustosamente.
Vivo da solo, nel miniappartamento di fianco a quello di mio padre, troppo vicino alla ferrovia per essere tranquillo. Ma io mi isolo dal mondo e dai miei pensieri lo stesso. Anche Elwood Blues riusciva a dormire e ad ascoltare musica anche se viveva accanto ai binari.
Una vita invidiabile, vero? Ma io non metto su dischi di John Lee Hooker. Quando voglio stare in pace, tra un Frecciabianca e un merci, penso a voi. E vi rivedo. Non tutti. Solo quelli che mando nella stanza speciale.
È il mio piccolo potere di condizionare il destino. Ed è il mio piccolo divertimento, forse lo scopo stesso della mia timida vita, vivere attraverso di voi quello che io non proverò mai. Scelgo quelli tra voi che se lo meritano - perché in questo io non sbaglio mai - e li destino alla 117. È lì che ho installato la telecamera nascosta, quando il capo mi ha chiesto di dare un’occhiata al cavo della pay tv porno che faceva i capricci. Vai tu che sei elettrotecnico, mi disse. Ma togliti la camicia così poi non torni dai clienti sporco. Obbedii senza discutere. Non è nel mio carattere. Solo gli dissi, bussando nel suo ufficio, con la felpa nera di Star Wars presa all’Oviesse completamente fuori posto insieme ai pantaloni eleganti della divisa, che avevo bisogno di un paio di pezzi di ricambio per risolvere il problema.
Mi mandò al negozio, compiaciuto della mia intraprendenza e del fatto che mi fossi levato davvero la camicia. Con i miei soldi comprai anche una costosissima micro-videocamera, tanto non spendo mai nulla per me a parte affitto, cibo e bollette. La nascosi bene e la collegai, attraverso una piccola deviazione della rete interna, a un hard disk. Ogni giorno o due, me lo prendo e lo porto a casa per scaricare i video. Peccato per l’audio. È raro che io senta le parole. Ma almeno i gemiti e i mugolii sì, quelli li registra. E le coppie che scelgo si fanno sempre sentire.
Lo so, adesso siete preoccupati.
Ripercorrete l’archivio della vostra memoria e cercate di ricordare se mai io vi abbia mandato nella 117.
Tranquilli, se anche fosse, quei video non sono destinati a nessun altro se non a me. Non vi rivedrete mai su YouPorn. E soprattutto non vi vedranno le vostre mogli. Perché anche loro - sapete - cercano le cose sconce su internet. Di più: forse qualcuna di loro è in un altro dei miei video. Quei filmati li conservo come fareste voi, con la stessa cura e la stessa riservatezza. Oserei dire che ne sono geloso. Del resto sono la mia vita attraverso la vostra, giusto? E poi sono certo che a qualcuno di voi piacerebbe sapere che avete i miei occhi addosso durante la vostra scopata clandestina.
Vi scelgo anche per questo, per la stanza 117, perché - ricordate? - io vi leggo dentro. Riconosco gli sposati e i fidanzati anche se nascondono la mano sinistra. E anche se la mostrano ma solo perché hanno sfilato la fede. Riconosco quelli che non lo avevano mai fatto prima, perché emanano ansia insieme all’eccitazione. Riconosco quelli che hanno pagato per avere compagnia. In loro l’emozione è poco più di una fiammella di desiderio, scelta e comprata come si farebbe all’Ikea, sfogliando il catalogo e poi portando a casa quella poltrona dal design accattivante di cui però non ricorderete mai il nome.
Ci vuole di più di una tenue fiammella e di un’emozione acerba per andare nella 117. È raro che a qualcuno di loro conceda questo privilegio, se così si può chiamare l’inconsapevole ingresso nella mia vita. Lo so bene che il commercialista brizzolato e la escort professionista sono lì apposta per fare evoluzioni speciali, posizioni senza limiti, tutto quello che la signora non concede più da anni - o forse non ha mai concesso - e lui cerca altrove, a prezzo di mercato. È come se li vedessi e sentissi i suoi gemiti finti mentre lui le penetra il culo avvolto in un preservativo ritardante per lui e stimolante per lei. Niente sugo. Niente emozione. Non m’interessa. Non vorrei vivere quella vita lì.
Se volete capire quello che intendo, ascoltate questa. Arriva questa ragazza, da sola, sguardo basso ma non troppo. Non era per me che era in ansia. “Aspetto una persona che arriverà fra poco” mi dice. “A che numero di stanza gli dico di venire?”.
“La 117” rispondo io passandole la chiave magnetica.
Perché? Dio, ragazzi, non immaginate l’elettricità che usciva da quel finestrino. Lei desiderava quel momento, quell’incontro. Non so come, non so perché. Ma era così maledettamente evidente. Poi è arrivato lui. Più calmo all’apparenza, la fede al dito della mano con cui mi ha allungato il documento. Ma negli occhi leggevi i numerini di un conto alla rovescia che durava da troppo tempo e che finalmente era vicino allo zero.
Non vedevo l’ora di mettere le mani sull’hard disk, alla fine del mio turno. E sapete qual è stata la mia parte preferita? No, non lui tuffato tra le sue cosce a leccarla o lei che fa sparire il cazzo nella sua bocca e che poco dopo si dimena per farsi scopare più forte mentre lui la penetra. La parte migliore è quando lei è ancora da sola, quando si toglie i vestiti e sparisce in bagno, sbirciando ogni tanto il cellulare forse in attesa dei suoi messaggi e scrivendo frenetica di quando in quando. Poi torna, con l’asciugamano bianco intorno al corpo, fruga nella borsa e con attenzione si prepara davanti allo specchio. Baby doll rosso fuoco, niente reggiseno, perizoma con un cuoricino disegnato, autoreggenti bianche, perfino una giarrettiera, e scarpe con il tacco rosse e lucide. E poi il suo viso quando, dopo un ultimo messaggio, si sdraia sul letto come in quella locandina del film da oscar in cui la protagonista è circondata di petali di rosa. Si sdraia e aspetta, sospirando e sorridendo, sentendosi bella, perfetta, desiderabile, desiderata.
Ecco, mi capite adesso? Capite perché solo qualcuno di voi va alla 117? Allora vi dico qualcosa che non posso dirvi quando vi avvicinate al mio gabbiotto. Ascoltatemi, vi prego, fatelo per me ma soprattutto per voi: non limitatevi a scopare. Emozionatevi. Renderete migliore anche la mia timida vita.
PADRE NOSTRO
“Padre nostro che sei nei cieli...”
“Mi hai chiamato?”
Pio aprì gli occhi all’improvviso, spaventato. Era solo a casa. Non era previsto che una voce interrompesse le sue preghiere, recitate sottovoce come ogni sera. Quando le pupille si abituarono alla luce vide un uomo, capelli lunghi e barba incolta, circondato da un bagliore che illuminava l’altro lato della sua stanza.
“Mio Dio!” disse, balzando seduto sul letto.
“No, sono il figlio” rispose placido lo sconosciuto.
Pio si strofinò gli occhi e si schiaffeggiò le guance. Ma quello era ancora lì.
“Non avere paura. Dicono tutti che sono buono”
“Chi... chi sei?”
“Ma cazzo, che delusione. Ho anche indossato ‘sta ridicola tunica bianca perché mi riconoscessi subito. Non penserai che io vada in giro ancora conciato così nel ventunesimo secolo?”
Pio si lasciò cadere con la schiena sulla testiera del letto. Il rumore ruppe il silenzio di quello che sembrava ancora un sogno. Ma il sogno non si era interrotto. E quello non se n’era andato.
“Oh Gesù...” sospirò Pio.
“Proprio io. Ce ne hai messo di tempo a capirlo. Eppure mi invochi tutte le mattine e tutte le sere”.
“Perché... perché lei è qui?”
“Dammi pure del tu. Ti conosco da quando eri appena nato”
“Non... non riesco”
“Eh ma porco il demonio, ci sono fedeli che darebbero un rene per vedere me o mia madre. E tu reagisci come se ti fosse apparso Allah o Visnù?”
Pio in un impeto scese dal letto e si buttò in ginocchio.
“Ma finiscila. Alzati di lì e mettiti comodo. Meglio, sotto le coperte così almeno non vedo il tuo pigiama. Io sarò vestito strano ma tu, cazzo, con quella roba attillata color zuppa di ceci andata a male...”
Pio ubbidì, gli occhi bassi, ripercorrendo mentalmente che cosa avesse mangiato o bevuto la sera prima e se quel qualcosa potesse aver provocato un effetto allucinogeno mischiato alla pastiglia contro il mal di testa, suo integratore alla cena del venerdì sera per scacciare lo stress della settimana. Perché una cosa era certa: quella roba non poteva essere reale...
“Mi hai chiesto che cosa ci faccio qui da te? Meriti una risposta. Perché mi hai rotto i coglioni”.
Pio alzò gli occhi, con sguardo interrogativo. E ripercorse nella mente i suoi peccati, come faceva nelle prime domeniche del mese quando andava a confessarsi da don Alfonso. Ma non trovò nulla di così grave da offendere Gesù. Men che meno da costringerlo a farlo scendere dal paradiso. E farlo atterrare nella stanza al terzo piano dell'appartamento in periferia ereditato dalla nonna buonanima.
“E sai qual è il problema? Sbagli e non ti accorgi di sbagliare. Ripensi a te stesso e non trovi errori”
“Signore, mi legge nella mente?”
“Questo e altro figliolo. Ho certi superpoteri che gli Avengers si devono scansare proprio. Chiedi a Lazzaro. O a quelli che si sono ubriacati a merda col mio vino a Cana. Se mio padre mi fa rinascere, quant’è vero lui, metto su una cantina sociale”
Pio alzò gli occhi per guardarlo. Conciato in quel modo, il sedicente Gesù sembrava un adepto di una setta che cercava proseliti vicino alla stazione. O un pazzo ordinario a cui stava finendo l’effetto degli psicofarmaci. Ed era nella sua stanza nel cuore della notte.
“Su, basta fare lo spaventato. Io non sono capace di fare del male. A quello pensate benissimo voi qui nel mondo”.
Pio annuì senza convinzione. Lui non faceva male a una mosca.
“E non autoassolverti. Per quel giochino ipocrita ti ci vogliono almeno un prete e un confessionale. Io non capisco, non capisco. Leggete le mie storie come minimo ogni domenica e ho la sensazione che non abbiate capito un cazzo”.
Pio aggrottò le sopracciglia. In tutti quegli anni, gli era successo di provare a immaginare come fosse Gesù. E certamente non parlava sboccato come in quella allucinazione.
“Ti stupisci perché dico parolacce? È solo perché non mi conosci bene. Marco, Matteo, Luca e Giovanni, quei santi uomini, non hanno raccontato proprio tutto. Diciamo che hanno sorvolato su certi particolari scabrosi. Dovevi sentire quello che ho detto davvero quando sono andato a prendere a bastonate i mercanti nel tempio...”
Pio sorrise per un istante soltanto. Ma poi tornò la paura. Come era ridotto il suo subconscio per avere un incubo del genere?
“Ascolta, tralasciando per un attimo le parolacce in dialetto galileo, davvero non ti rendi conto dove sbagli?”
“Signore, io cerco di essere devoto e di seguire i suoi comandamenti. Prego ogni mattina e ogni sera, vado a messa la domenica e le feste. Faccio digiuno e astinenza i venerdì di Quaresima”
L’uomo barbuto rise: “Astinenza per forza. Non è che una ragazza può trovarti sexy con quel pigiama...”
Pio arrossì. E sentì un moto di rabbia stringergli lo stomaco. Per lui era una ferita aperta.
“Ok, ok, scusa. Non volevo offenderti. Torniamo al punto. Dimmi un po’, che cosa fai in Quaresima come penitenza?”.
“Ho... ho scelto di rinunciare per quaranta giorni ai dolci. E allo zucchero nel caffè”
“Minchia che sforzo. Quindi io mi sono fatto crocifiggere per espiare le colpe dell'umanità e tu, per espiare le tue, rinunci ai biscotti per un mese? Cazzo, a saperlo duemila anni fa, altro che la morte in croce, che tra l'altro ‘sti buchi al polso quando cambia il tempo mi fanno ancora malissimo. Ma papà insiste che non posso chiudermeli, che ne va della mia credibilità”.
“Signore, ma io amo i dolci. E il senso del sacrificio è rinunciare a qualcosa che mi piace...”
“Non spiegarlo a me. Io amavo Maddalena. Ma ero venuto al mondo per un’altra ragione. E per non farla soffrire l’ho tenuta lontana dal mio amore...”
L’uomo con la barba abbassò gli occhi e sospirò. Pio lo guardò senza capire.
“Ok, mi ci vuole qualcosa da bere. Ce l’hai un bicchiere d’acqua? No aspetta, faccio da solo”. Il tizio schioccò le dita e nelle sue mani comparve una pinta di birra scura: “Guinness. Grazie San Pat. Sai, è il mio barista di fiducia quell’ubriacone”.
Bevve un sorso. La schiuma candida e densa si fermò sui suoi baffi. Il tizio se li ripulì con un dito che poi passò tra le labbra. “Torniamo a noi, amico. Ma sappi che non sarà piacevole”.
Lo fissò negli occhi. Pio abbassò lo sguardo. “Cominciamo dalle cose semplici. Le elezioni erano in Quaresima, giusto? Dimmi un po’, per chi hai votato?”
“Io... il voto è...”
“Segreto, lo so. Ma non per me come potrai intuire. Dunque tu alle elezioni che erano in Quaresima hai votato per quelli che dicono che, se ti entra un ladro in casa, è tuo diritto prendere una pistola e sparargli?”
Pio tacque.
“Cazzo, mi sembrava di aver parlato quel centinaio di volte duemila anni fa di amore verso il prossimo, di perdono, di porgere l’altra guancia. Senza arrivare a mio padre e al suo «Quinto, non uccidere...»”
Pio obiettò: “L’ho fatto perché vorrei tutelare i nostri valori, che sono anche i suoi, Signore, quelli che ci ha lasciato in eredità come precetti”
Il tizio scosse la testa: “Oh no no no, non tocchiamo questo tasto o mi tocca cazziarti fino all’alba. Quindi per tutelare i presunti valori tu chiudi le porte, alzi i muri e imbracci le armi?”
“Io...”
“Io un cazzo. Ti faccio un esempio: le hai mai lette le preghiere dei soldati? Sono tutte uguali. Dicono cose come «rendi salda la mia mano e precisa la mia mira di fronte al nemico». Capisci? Chiedono a mio padre di aiutarli a uccidere. E non è tutto: se due nemici uno di fronte all’altro recitano la stessa preghiera prima di sparare, dimmi un po’, come facciamo a scegliere la mano da rendere salda?”
“Io...”
“Io, io, io... La verità è che un sacco di gente prega per i suoi comodi. Non vuole il bene, vuole il suo bene. E io, Lucifero porco, non ho mai detto questo. Altro che principi e valori...”
Il sedicente Gesù puntò un dito verso Pio, che si era raggomitolato nelle coperte: “A proposito, di quali valori vai blaterando quando ti metti a leggere libri in piazza insieme ai tuoi amichetti?”
“Libri? In piazza?”
“Non hai forse fatto la sentinella in piedi? Quella pagliacciata per dire no alla... aspetta, come dite voi? Ecco, alla deriva gender”
“Signore, l’ho fatto per lei. Pensi se gli invertiti potessero sposarsi liberamente, in spregio alla famiglia vera”
“Fermo fermo fermo, che più parli e più mi viene voglia di chiedere a papà che ti fulmini. Qui l’unico invertito sei tu perché inverti il senso delle cose. Quindi due persone che si vogliono bene, che cercano la loro felicità senza rubare un grammo della tua sono per te un pericolo?”
Pio tacque, stupito e interdetto.
“Te la chiedo meglio: per te l’amore è una minaccia a Dio? In qualunque sua forma si manifesti, credi che la felicità dei figli di Dio sia per lui un’offesa o una gioia?”.
Pio, con gli occhi sul lenzuolo, non rispose.
“Quando la finirete di metterci in mezzo, a me, a Maometto, a Buddha e agli altri fino a Giove e a Manitù, nelle vostre fissazioni del cazzo? Vi abbiamo dato il libero arbitrio. Esercitatelo senza far finta che i vostri comportamenti siano in nome nostro. E se proprio devi fare qualcosa in nome mio, gioisci se qualcuno vive felice e in pace. E aiuta a far trovare felicità e pace a chi non l’ha ancora trovata”.
Pio aveva sollevato gli occhi a metà frase. Un dubbio gli si dibatteva dentro: “Ma Signore, ha parlato di Maometto, di Buddha... Ma non sta scritto nei comandamenti: non avrai altro Dio all’infuori di me?”
“Ecco, subito a cambiare discorso. Ascoltami bene: che cosa pensi che succeda quando si presenta lassù una persona che ha vissuto la sua esistenza nell’amore e nella pace, sostenendo chi aveva intorno e occupandosi di chi aveva bisogno di lui? Credi che lo mandiamo via solo perché sul comodino ha una statuetta a forma di elefante di Ganesh invece che quella di mia mamma comprata a Lourdes?”
Pio tornò ad abbassare gli occhi, confuso.
“Siete voi che avete questa fissa per il giudicare. E mentre imbastite processi sommari, vi dimenticate l’essenziale. A proposito di giudicare, parlami di tua sorella”.
Pio sospirò. Su quello era certo di essere nel giusto. “Non mi parla più, Signore. Ho provato a dirle che sbagliava ma la sua reazione è stata di tagliare i ponti con me. Ne soffre tanto anche la mamma”.
“Spiegami bene: perché sbaglia?”
“Convive, fuori dal matrimonio”
“Si amano?”
“Sì, credo di sì”
“Un punto per me. E poi?”
“E poi... frequenta pessime compagnie”
“Del tipo?”
“Signore, parlarne mi imbarazza. E poi credo che lo sappia”
“Certo che lo so. E fatico a non mettere in evidenza come lo hai saputo tu: giri per i siti web dei locali dove si organizzano raduni bdsm, ti sfogli tutte le gallerie fotografiche, ti si ringalluzzisce l’ormone ma poi quando riconosci tua sorella nuda, legata con corde rosa, cosparsa di goccioline di cera che il suo ragazzo ha fatto piovere da una candela, ti sembra tutto sbagliato?”
Pio arrossì, punto sul vivo. Si chiese per un istante come mai Gesù conoscesse il bdsm. Ma aveva la mente troppo confusa per indagare oltre.
“Vedi come funziona la mania del giudicare? Se io ora giudicassi te, non ne usciresti assolto. Ma io voglio farti capire, non condannarti”
“Allora mi aiuti, Signore, perché proprio non capisco”
“Dimmi che cosa ti sembra sbagliato”
“Si mostra nuda in pubblico, quello è sbagliato”
Il sedicente Cristo rise. “Scusa, non volevo riderti in faccia. Ma ti svelo un paio di segreti sulla nudità. Credi davvero che in croce mi avessero avvolto uno straccio bianco a farmi da mutanda? Macchè. Quello hanno cominciato a metterlo i pittori e gli scultori per compiacere i bigotti come te. Nell’ora in cui si compiva il mio destino, nell’ora in cui per amore anche tuo ho rinunciato alla mia stessa vita, io ero nudo come un lombrico davanti agli occhi di decine di persone che mi guardavano. Questo per dirti che il corpo che abbiamo, che tu hai, che tua sorella ha, è parte di te e di questo mondo. Non ne devi avere vergogna, lo ha creato mio padre. Anzi, sai che lo prendo pure in giro quando ogni tanto a casa nostra sentiamo risuonare le bestemmie che arrivano da giù?"
"Signore, la bestemmia è sbagliata"
"Ma sì, ma non possiamo mica mandare all'inferno quelli che ci invocano male perché sbattono il mignolino sul bordo del letto. Quel dolore bastardo è una punizione più che sufficiente. E sai che cosa dico a mio padre quando gli danno del porco?"
"No, Signore"
"Dico che un po' hanno ragione. Ha fatto i maschi sgraziati e asimmetrici e quando dalla costola di Adamo ha creato la donna ci ha messo un casino d'impegno in più. Le curve, i seni, i fianchi... Forse hanno ragione a dirgli che è un po' porco"
"Gesù, che cosa devo sentire..."
"Ma rilassati, cazzo. E tua sorella. Credi che sia felice di sentirsi respinta e giudicata da te? Mi hai detto che ama il suo ragazzo"
"Sì, ma..."
"Ma?"
"Lui la picchia"
"Stai parlando a uno che si è preso trenta frustate per amore tuo. Quindi attento a quello che dici"
"Non la rispetta"
"Ripeti con me: si amano?"
"Sì, credo di sì"
"Lui la obbliga a farlo?"
"No... credo di no"
"Quindi accade semplicemente quello che desiderano che accada? È solo un modo un po' fuori dal comune di vivere il loro amore?"
"Signore, io non lo so..."
"Lo so io, che so parecchie cose, anche quelle che non mi dite. E soprattutto so che l'amore non è mai sbagliato. Se è profondo, sentito, se rende felici, è il più bel dono che ci si possa fare sulla terra"
Il tizio con la barba diede un lungo sorso alla sua birra scura, non lasciando che l'ombra della schiuma candida. "Ho finito la birra. E ho finito con te. Domattina vedremo se hai capito qualcosa di quello che ti ho detto".
Posò la pinta sul comò accanto alla poltrona su cui si era seduto: "E domani chiama tua sorella. E mangiati una cazzo di fetta di torta, che con gli zuccheri in corpo ragioni meglio. La pace sia con te".
"E con il tuo spi..." iniziò a rispondere Pio, come un riflesso condizionato, prima che un bagliore intenso gli facesse chiudere gli occhi. Quando li riaprì la poltrona era vuota. Sogno finito. Allucinazione cancellata.
Pio si strofinò gli occhi a lungo. Li chiuse e li riaprì. Li chiuse e li riaprì. Nulla. Volatilizzato. Accese la lampada. E fu allora che notò la pinta vuota sul comò. Sobbalzò sul letto. E se non fosse stata un'allucinazione?
Impossibile. Quello parlava di rinunciare ai sacrifici in Quaresima, mentre Gesù ha superato ogni tentazione per quaranta giorni nel deserto. E poi accettava gli dei di altre religioni, come se la fede non contasse nulla. Aveva perfino detto di tollerare, che il cielo lo perdoni anche solo per averlo pensato, l'omosessualità.
Impossibile. Aveva fatto un sogno orrendo e blasfemo e ora il suo era uno strano dormiveglia. Avrebbe preso un'altra pastiglia, avrebbe spento la luce, si sarebbe nascosto sotto le coperte e l'indomani sarebbe sparito tutto. Anche la pinta sul comò. Anche la stupida idea di chiamare sua sorella. Anzi, il giorno dopo avrebbe ridato un'occhiata a quel sito, solo per stupirsi e indignarsi del vortice di perversione in cui quel porco l'aveva trascinata. Lei e le sue amiche e i suoi amici, con quelle corde, quelle mollette, quella pelle nuda, quelle gocce di cera, quei segni lasciati sui culi dalle sculacciate e dai frustini...
Pio spense la luce. Sistemò l'erezione che premeva sul pigiama color zuppa di ceci e riprese a pregare: "E non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male..."
“Mi hai chiamato?”
Pio aprì gli occhi all’improvviso, spaventato. Era solo a casa. Non era previsto che una voce interrompesse le sue preghiere, recitate sottovoce come ogni sera. Quando le pupille si abituarono alla luce vide un uomo, capelli lunghi e barba incolta, circondato da un bagliore che illuminava l’altro lato della sua stanza.
“Mio Dio!” disse, balzando seduto sul letto.
“No, sono il figlio” rispose placido lo sconosciuto.
Pio si strofinò gli occhi e si schiaffeggiò le guance. Ma quello era ancora lì.
“Non avere paura. Dicono tutti che sono buono”
“Chi... chi sei?”
“Ma cazzo, che delusione. Ho anche indossato ‘sta ridicola tunica bianca perché mi riconoscessi subito. Non penserai che io vada in giro ancora conciato così nel ventunesimo secolo?”
Pio si lasciò cadere con la schiena sulla testiera del letto. Il rumore ruppe il silenzio di quello che sembrava ancora un sogno. Ma il sogno non si era interrotto. E quello non se n’era andato.
“Oh Gesù...” sospirò Pio.
“Proprio io. Ce ne hai messo di tempo a capirlo. Eppure mi invochi tutte le mattine e tutte le sere”.
“Perché... perché lei è qui?”
“Dammi pure del tu. Ti conosco da quando eri appena nato”
“Non... non riesco”
“Eh ma porco il demonio, ci sono fedeli che darebbero un rene per vedere me o mia madre. E tu reagisci come se ti fosse apparso Allah o Visnù?”
Pio in un impeto scese dal letto e si buttò in ginocchio.
“Ma finiscila. Alzati di lì e mettiti comodo. Meglio, sotto le coperte così almeno non vedo il tuo pigiama. Io sarò vestito strano ma tu, cazzo, con quella roba attillata color zuppa di ceci andata a male...”
Pio ubbidì, gli occhi bassi, ripercorrendo mentalmente che cosa avesse mangiato o bevuto la sera prima e se quel qualcosa potesse aver provocato un effetto allucinogeno mischiato alla pastiglia contro il mal di testa, suo integratore alla cena del venerdì sera per scacciare lo stress della settimana. Perché una cosa era certa: quella roba non poteva essere reale...
“Mi hai chiesto che cosa ci faccio qui da te? Meriti una risposta. Perché mi hai rotto i coglioni”.
Pio alzò gli occhi, con sguardo interrogativo. E ripercorse nella mente i suoi peccati, come faceva nelle prime domeniche del mese quando andava a confessarsi da don Alfonso. Ma non trovò nulla di così grave da offendere Gesù. Men che meno da costringerlo a farlo scendere dal paradiso. E farlo atterrare nella stanza al terzo piano dell'appartamento in periferia ereditato dalla nonna buonanima.
“E sai qual è il problema? Sbagli e non ti accorgi di sbagliare. Ripensi a te stesso e non trovi errori”
“Signore, mi legge nella mente?”
“Questo e altro figliolo. Ho certi superpoteri che gli Avengers si devono scansare proprio. Chiedi a Lazzaro. O a quelli che si sono ubriacati a merda col mio vino a Cana. Se mio padre mi fa rinascere, quant’è vero lui, metto su una cantina sociale”
Pio alzò gli occhi per guardarlo. Conciato in quel modo, il sedicente Gesù sembrava un adepto di una setta che cercava proseliti vicino alla stazione. O un pazzo ordinario a cui stava finendo l’effetto degli psicofarmaci. Ed era nella sua stanza nel cuore della notte.
“Su, basta fare lo spaventato. Io non sono capace di fare del male. A quello pensate benissimo voi qui nel mondo”.
Pio annuì senza convinzione. Lui non faceva male a una mosca.
“E non autoassolverti. Per quel giochino ipocrita ti ci vogliono almeno un prete e un confessionale. Io non capisco, non capisco. Leggete le mie storie come minimo ogni domenica e ho la sensazione che non abbiate capito un cazzo”.
Pio aggrottò le sopracciglia. In tutti quegli anni, gli era successo di provare a immaginare come fosse Gesù. E certamente non parlava sboccato come in quella allucinazione.
“Ti stupisci perché dico parolacce? È solo perché non mi conosci bene. Marco, Matteo, Luca e Giovanni, quei santi uomini, non hanno raccontato proprio tutto. Diciamo che hanno sorvolato su certi particolari scabrosi. Dovevi sentire quello che ho detto davvero quando sono andato a prendere a bastonate i mercanti nel tempio...”
Pio sorrise per un istante soltanto. Ma poi tornò la paura. Come era ridotto il suo subconscio per avere un incubo del genere?
“Ascolta, tralasciando per un attimo le parolacce in dialetto galileo, davvero non ti rendi conto dove sbagli?”
“Signore, io cerco di essere devoto e di seguire i suoi comandamenti. Prego ogni mattina e ogni sera, vado a messa la domenica e le feste. Faccio digiuno e astinenza i venerdì di Quaresima”
L’uomo barbuto rise: “Astinenza per forza. Non è che una ragazza può trovarti sexy con quel pigiama...”
Pio arrossì. E sentì un moto di rabbia stringergli lo stomaco. Per lui era una ferita aperta.
“Ok, ok, scusa. Non volevo offenderti. Torniamo al punto. Dimmi un po’, che cosa fai in Quaresima come penitenza?”.
“Ho... ho scelto di rinunciare per quaranta giorni ai dolci. E allo zucchero nel caffè”
“Minchia che sforzo. Quindi io mi sono fatto crocifiggere per espiare le colpe dell'umanità e tu, per espiare le tue, rinunci ai biscotti per un mese? Cazzo, a saperlo duemila anni fa, altro che la morte in croce, che tra l'altro ‘sti buchi al polso quando cambia il tempo mi fanno ancora malissimo. Ma papà insiste che non posso chiudermeli, che ne va della mia credibilità”.
“Signore, ma io amo i dolci. E il senso del sacrificio è rinunciare a qualcosa che mi piace...”
“Non spiegarlo a me. Io amavo Maddalena. Ma ero venuto al mondo per un’altra ragione. E per non farla soffrire l’ho tenuta lontana dal mio amore...”
L’uomo con la barba abbassò gli occhi e sospirò. Pio lo guardò senza capire.
“Ok, mi ci vuole qualcosa da bere. Ce l’hai un bicchiere d’acqua? No aspetta, faccio da solo”. Il tizio schioccò le dita e nelle sue mani comparve una pinta di birra scura: “Guinness. Grazie San Pat. Sai, è il mio barista di fiducia quell’ubriacone”.
Bevve un sorso. La schiuma candida e densa si fermò sui suoi baffi. Il tizio se li ripulì con un dito che poi passò tra le labbra. “Torniamo a noi, amico. Ma sappi che non sarà piacevole”.
Lo fissò negli occhi. Pio abbassò lo sguardo. “Cominciamo dalle cose semplici. Le elezioni erano in Quaresima, giusto? Dimmi un po’, per chi hai votato?”
“Io... il voto è...”
“Segreto, lo so. Ma non per me come potrai intuire. Dunque tu alle elezioni che erano in Quaresima hai votato per quelli che dicono che, se ti entra un ladro in casa, è tuo diritto prendere una pistola e sparargli?”
Pio tacque.
“Cazzo, mi sembrava di aver parlato quel centinaio di volte duemila anni fa di amore verso il prossimo, di perdono, di porgere l’altra guancia. Senza arrivare a mio padre e al suo «Quinto, non uccidere...»”
Pio obiettò: “L’ho fatto perché vorrei tutelare i nostri valori, che sono anche i suoi, Signore, quelli che ci ha lasciato in eredità come precetti”
Il tizio scosse la testa: “Oh no no no, non tocchiamo questo tasto o mi tocca cazziarti fino all’alba. Quindi per tutelare i presunti valori tu chiudi le porte, alzi i muri e imbracci le armi?”
“Io...”
“Io un cazzo. Ti faccio un esempio: le hai mai lette le preghiere dei soldati? Sono tutte uguali. Dicono cose come «rendi salda la mia mano e precisa la mia mira di fronte al nemico». Capisci? Chiedono a mio padre di aiutarli a uccidere. E non è tutto: se due nemici uno di fronte all’altro recitano la stessa preghiera prima di sparare, dimmi un po’, come facciamo a scegliere la mano da rendere salda?”
“Io...”
“Io, io, io... La verità è che un sacco di gente prega per i suoi comodi. Non vuole il bene, vuole il suo bene. E io, Lucifero porco, non ho mai detto questo. Altro che principi e valori...”
Il sedicente Gesù puntò un dito verso Pio, che si era raggomitolato nelle coperte: “A proposito, di quali valori vai blaterando quando ti metti a leggere libri in piazza insieme ai tuoi amichetti?”
“Libri? In piazza?”
“Non hai forse fatto la sentinella in piedi? Quella pagliacciata per dire no alla... aspetta, come dite voi? Ecco, alla deriva gender”
“Signore, l’ho fatto per lei. Pensi se gli invertiti potessero sposarsi liberamente, in spregio alla famiglia vera”
“Fermo fermo fermo, che più parli e più mi viene voglia di chiedere a papà che ti fulmini. Qui l’unico invertito sei tu perché inverti il senso delle cose. Quindi due persone che si vogliono bene, che cercano la loro felicità senza rubare un grammo della tua sono per te un pericolo?”
Pio tacque, stupito e interdetto.
“Te la chiedo meglio: per te l’amore è una minaccia a Dio? In qualunque sua forma si manifesti, credi che la felicità dei figli di Dio sia per lui un’offesa o una gioia?”.
Pio, con gli occhi sul lenzuolo, non rispose.
“Quando la finirete di metterci in mezzo, a me, a Maometto, a Buddha e agli altri fino a Giove e a Manitù, nelle vostre fissazioni del cazzo? Vi abbiamo dato il libero arbitrio. Esercitatelo senza far finta che i vostri comportamenti siano in nome nostro. E se proprio devi fare qualcosa in nome mio, gioisci se qualcuno vive felice e in pace. E aiuta a far trovare felicità e pace a chi non l’ha ancora trovata”.
Pio aveva sollevato gli occhi a metà frase. Un dubbio gli si dibatteva dentro: “Ma Signore, ha parlato di Maometto, di Buddha... Ma non sta scritto nei comandamenti: non avrai altro Dio all’infuori di me?”
“Ecco, subito a cambiare discorso. Ascoltami bene: che cosa pensi che succeda quando si presenta lassù una persona che ha vissuto la sua esistenza nell’amore e nella pace, sostenendo chi aveva intorno e occupandosi di chi aveva bisogno di lui? Credi che lo mandiamo via solo perché sul comodino ha una statuetta a forma di elefante di Ganesh invece che quella di mia mamma comprata a Lourdes?”
Pio tornò ad abbassare gli occhi, confuso.
“Siete voi che avete questa fissa per il giudicare. E mentre imbastite processi sommari, vi dimenticate l’essenziale. A proposito di giudicare, parlami di tua sorella”.
Pio sospirò. Su quello era certo di essere nel giusto. “Non mi parla più, Signore. Ho provato a dirle che sbagliava ma la sua reazione è stata di tagliare i ponti con me. Ne soffre tanto anche la mamma”.
“Spiegami bene: perché sbaglia?”
“Convive, fuori dal matrimonio”
“Si amano?”
“Sì, credo di sì”
“Un punto per me. E poi?”
“E poi... frequenta pessime compagnie”
“Del tipo?”
“Signore, parlarne mi imbarazza. E poi credo che lo sappia”
“Certo che lo so. E fatico a non mettere in evidenza come lo hai saputo tu: giri per i siti web dei locali dove si organizzano raduni bdsm, ti sfogli tutte le gallerie fotografiche, ti si ringalluzzisce l’ormone ma poi quando riconosci tua sorella nuda, legata con corde rosa, cosparsa di goccioline di cera che il suo ragazzo ha fatto piovere da una candela, ti sembra tutto sbagliato?”
Pio arrossì, punto sul vivo. Si chiese per un istante come mai Gesù conoscesse il bdsm. Ma aveva la mente troppo confusa per indagare oltre.
“Vedi come funziona la mania del giudicare? Se io ora giudicassi te, non ne usciresti assolto. Ma io voglio farti capire, non condannarti”
“Allora mi aiuti, Signore, perché proprio non capisco”
“Dimmi che cosa ti sembra sbagliato”
“Si mostra nuda in pubblico, quello è sbagliato”
Il sedicente Cristo rise. “Scusa, non volevo riderti in faccia. Ma ti svelo un paio di segreti sulla nudità. Credi davvero che in croce mi avessero avvolto uno straccio bianco a farmi da mutanda? Macchè. Quello hanno cominciato a metterlo i pittori e gli scultori per compiacere i bigotti come te. Nell’ora in cui si compiva il mio destino, nell’ora in cui per amore anche tuo ho rinunciato alla mia stessa vita, io ero nudo come un lombrico davanti agli occhi di decine di persone che mi guardavano. Questo per dirti che il corpo che abbiamo, che tu hai, che tua sorella ha, è parte di te e di questo mondo. Non ne devi avere vergogna, lo ha creato mio padre. Anzi, sai che lo prendo pure in giro quando ogni tanto a casa nostra sentiamo risuonare le bestemmie che arrivano da giù?"
"Signore, la bestemmia è sbagliata"
"Ma sì, ma non possiamo mica mandare all'inferno quelli che ci invocano male perché sbattono il mignolino sul bordo del letto. Quel dolore bastardo è una punizione più che sufficiente. E sai che cosa dico a mio padre quando gli danno del porco?"
"No, Signore"
"Dico che un po' hanno ragione. Ha fatto i maschi sgraziati e asimmetrici e quando dalla costola di Adamo ha creato la donna ci ha messo un casino d'impegno in più. Le curve, i seni, i fianchi... Forse hanno ragione a dirgli che è un po' porco"
"Gesù, che cosa devo sentire..."
"Ma rilassati, cazzo. E tua sorella. Credi che sia felice di sentirsi respinta e giudicata da te? Mi hai detto che ama il suo ragazzo"
"Sì, ma..."
"Ma?"
"Lui la picchia"
"Stai parlando a uno che si è preso trenta frustate per amore tuo. Quindi attento a quello che dici"
"Non la rispetta"
"Ripeti con me: si amano?"
"Sì, credo di sì"
"Lui la obbliga a farlo?"
"No... credo di no"
"Quindi accade semplicemente quello che desiderano che accada? È solo un modo un po' fuori dal comune di vivere il loro amore?"
"Signore, io non lo so..."
"Lo so io, che so parecchie cose, anche quelle che non mi dite. E soprattutto so che l'amore non è mai sbagliato. Se è profondo, sentito, se rende felici, è il più bel dono che ci si possa fare sulla terra"
Il tizio con la barba diede un lungo sorso alla sua birra scura, non lasciando che l'ombra della schiuma candida. "Ho finito la birra. E ho finito con te. Domattina vedremo se hai capito qualcosa di quello che ti ho detto".
Posò la pinta sul comò accanto alla poltrona su cui si era seduto: "E domani chiama tua sorella. E mangiati una cazzo di fetta di torta, che con gli zuccheri in corpo ragioni meglio. La pace sia con te".
"E con il tuo spi..." iniziò a rispondere Pio, come un riflesso condizionato, prima che un bagliore intenso gli facesse chiudere gli occhi. Quando li riaprì la poltrona era vuota. Sogno finito. Allucinazione cancellata.
Pio si strofinò gli occhi a lungo. Li chiuse e li riaprì. Li chiuse e li riaprì. Nulla. Volatilizzato. Accese la lampada. E fu allora che notò la pinta vuota sul comò. Sobbalzò sul letto. E se non fosse stata un'allucinazione?
Impossibile. Quello parlava di rinunciare ai sacrifici in Quaresima, mentre Gesù ha superato ogni tentazione per quaranta giorni nel deserto. E poi accettava gli dei di altre religioni, come se la fede non contasse nulla. Aveva perfino detto di tollerare, che il cielo lo perdoni anche solo per averlo pensato, l'omosessualità.
Impossibile. Aveva fatto un sogno orrendo e blasfemo e ora il suo era uno strano dormiveglia. Avrebbe preso un'altra pastiglia, avrebbe spento la luce, si sarebbe nascosto sotto le coperte e l'indomani sarebbe sparito tutto. Anche la pinta sul comò. Anche la stupida idea di chiamare sua sorella. Anzi, il giorno dopo avrebbe ridato un'occhiata a quel sito, solo per stupirsi e indignarsi del vortice di perversione in cui quel porco l'aveva trascinata. Lei e le sue amiche e i suoi amici, con quelle corde, quelle mollette, quella pelle nuda, quelle gocce di cera, quei segni lasciati sui culi dalle sculacciate e dai frustini...
Pio spense la luce. Sistemò l'erezione che premeva sul pigiama color zuppa di ceci e riprese a pregare: "E non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male..."
Commenti
Posta un commento